Abbracci e meditazione buddhista a Torino: l’università italiana apre le porte alla cultura dello stare bene
Aprirà a febbraio un corso di felicità all’Università di Torino, il primo in Italia. Agli studenti di infermieristica verrà proposto un laboratorio su questo tema perché “La felicità è un’emozione primaria che possiamo educare” spiega alla Stampa il neuroscienziato Andrea De Giorgio, futuro docente del corso.
Il laboratorio sarà basato prevalentemente sulla pratica: abbracci, meditazione buddhista, esercizi di gentilezza con sconosciuti, e compiti a casa come tenere un “diario della felicità e delle qualità”.
L’Università di Torino segue l’esempio di Yale, che dall’anno scorso propone lezioni di Psychology and the Good Life. Dall’inizio, il corso ha riscosso un grande successo, diventando il più seguito nella storia del prestigioso istituto.
Diversamente dall’università americana, dove i ragazzi frequentano il corso due volte a settimana per tutto il semestre, in Italia il laboratorio durerà solo tre giorni. Le ragioni che hanno spinto i due atenei a intraprendere il progetto sono però le stesse in Piemonte e nel New Haven. Secondo De Giorgio, gli aspiranti infermieri dell’Università di Torino, “sembrano spenti e con poco entusiasmo. Per gli infermieri che hanno a che fare con il dolore è importante trasmettere positività.” A Yale, la professoressa Laurie Santos vuole far riscoprire la felicità ai ragazzi stressati dalle pressioni dell’esigente università.
Se questo genere di corsi resta una rarità, la filosofia che li ha creati riscuote grande successo. L’attenzione alle emozioni positive venuta da oltreoceano è atterrata in Europa sotto forma di libri, corsi e life-coach. Che sia ottenuta grazie allo yoga o messa in scena su Instagram, la felicità è diventata un obbligo.
“Lavorare su se stessi”, oppure “stare bene con se stessi per stare bene con gli altri” sono i mantra di questa nuova religione che appassiona sempre di più la borghesia occidentale. Ma dietro ai maestri di vita e alle luminose foto delle loro colazioni, esiste una dominio di studio internazionalmente riconosciuto: la psicologia positiva.
La colonna portante di questa scuola è Martin Seligman, ex presidente della American Psychological Association. Questa disciplina, sviluppata negli anni ’90, si costruisce sul presupposto che la psicologia dovrebbe occuparsi di coltivare l’appagamento personale e la felicità invece di curare disfunzioni e patologie.
Il culto del benessere individuale, e la convinzione che la realizzazione personale vada perseguita concentrandosi sulla propria psiche, hanno investito vari settori: l’economia, il marketing, le neuroscienze. Esistono applicazioni che ci aiutano a “sormontare lo stress e i pensieri negativi”, summit mondiali della felicità, e persino corsi per diventare life-coach in Italia.
Secondo alcuni, questa teoria rappresenta pericoli che vanno oltre un vago alone di egocentrismo, i Ted Talks e i libri motivazionali scritti con un font molto grande. La sociologa Eva Ilouz e lo psicologo Edgar Cabanas la chiamano “tirannia della felicità” nel loro nuovo libro intitolato Happy-crazia, come l’industria della felicità controlla le nostre vite. (Edizioni Premier Parallèle, 2018)
Secondo gli studiosi quest’enfasi sulla soggettività va di pari passo con il neoliberalismo perché legittima l’individualismo. “L’ideale della felicità è un vecchio ideale nella cultura occidentale, già con Aristotele l’obiettivo dell’uomo è di vivere la “vita buona e felice”, spiega Eva Ilouz al canale televisivo France 5. E continua, “Ma nel ventesimo secolo si è prodotto un cambiamento molto importante in questo vecchio ideale: non si tratta più di praticare delle virtù, che sarebbero quindi condivise con tutti, ma di massimizzare il proprio potenziale”.
Gilles Lipovetsky chiama questo fenomeno la “seconda rivoluzione individualista”. Secondo il filosofo francese questo neo-individualismo narcisista usa la psicologia e la responsabilità individuale per mascherare i deficit strutturali e i paradossi della nostra società.
Ilouz e Cabanas sostengono infatti che quando gli psicologi positivi si alleano con economisti e politici nascono seri problemi. La felicità diventa un pretesto per far passare in secondo piano l’aumento del Pil o ridistribuire le ricchezze in modo equo. E propongono alla rivista francese Usbek&Rica un esempio che conferma la teoria: “Poco dopo che David Cameron effettuò i più grandi tagli al budget nella storia del suo Paese, annunciò che la nazione doveva adottare la felicità come indice nazionale di progresso”.