Bocciato l’accordo di Theresa May sulla Brexit. L’ Ue: non si rinegozia
Theresa May non dimenticherà in fretta la notte del 15 gennaio 2019. Dopo più di due anni di trattative con l’Unione Europea, la Camera dei comuni ha bocciato l’accordo sulla Brexit: 432 i voti contrari, 202 quelli a favore.
È servito a poco il suo appello all’unità «per il bene del Paese» come poco è valsa anche la lettera inviata dal Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, in cui prometteva che il “backstop sull’Irlanda” – il piano "B" che prevede la permanenza temporanea del Regno Unito nell'unione doganale – sarebbe stato usato per il più breve tempo possibile.
La Commissione europea: «L'accordo non può essere rinegoziato»
Un tentativo di placare in extremis gli ultra-ortodossi nel partito conservatore critici dell'accordo ottenuto da May, considerato troppo accondiscendente nei confronti dell'Ue. A rendere ancora più complicata la situazione si è aggiunto il portavoce della Commissione europea, Margaritis Schinas, che ha affermato: «L'accordo sulla Brexit non può essere rinegoziato. Ora sta al Regno Unito dire cosa vuole fare. Aspettiamo di sapere da loro quali sono i prossimi passi».
A questo punto ogni scenario è possibile: già oggi May si sottoporrà a un voto di fiducia, per capire se il suo governo abbia ancora una maggioranza. Ma se pure dovesse superare questo scoglio, il futuro prossimo resta incerto. Entro lunedì dovrà presentare una nuova proposta. Se non dovesse passare o non dovesse riuscirci in teoria scatterebbe la cosiddetta hard Brexit, l'uscita senza accordi. La più dura dal punto di vista economico.
La débâcle di Teresa May
La sconfitta di May è anche all'interno del partito. A pesare al momento del voto sono stati, infatti, soprattutto i 118 voti da parte di deputati conservatori che, schierandosi a fianco dell’opposizione e del partito unionista irlandese, partner di coalizione della May, hanno sancito la sua sconfitta. Non soltanto alla Camera, ma anche, moralmente, all’interno del partito.
Sono voti che peseranno sul futuro della Premier che, mercoledì 16 gennaio, dovrà affrontare un voto di sfiducia proposto da Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista. La Camera tornerà anche a dibattere su come procedere rispetto ai negoziati con l’Unione Europea. Alcuni deputati dell’opposizione hanno già proposto di estendere la scadenza per l’uscita del Regno Unito, prevista attualmente per il 29 marzo 2019. L'ipotesi è stata respinta in serata dal portavoce della May.
Henry Drummond, Facebook|
E ora cosa succede?
Cosa succederà ora? Gli scenari possibili sono diversi. Se non dovesse superare il voto di fiducia, previsto per il 16 gennaio, Theresa May avrà soltanto due settimane di tempo per cercare nuovamente di ottenere la fiducia, l'alternativa sono le dimissioni.
In questo caso, il partito conservatore potrebbe cercare di formare un governo di minoranza (presumibilmente guidato dagli hard brexiteers come Jacob Rees-Mogg o l’ex Ministro degli Esteri Boris Johnson) oppure un governo di coalizione. Se non fosse possibile, probabilmente si tornerà alle urne, e potrebbe arrivare l’ora del “rosso” Jeremy Corbyn.
In ogni caso, se Theresa May non dovesse riuscire a rimanere al 10 Downing street, e a far approvare una versione differente dell’accordo, chi prenderà il suo posto dovrà comunque decidere se e come ri-negoziare l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Da quello che ha fatto intendere Schinas, anche se i 27 non sono disposti a rinegoziare l'intesa, c'è qualche margine per ritoccare la dichiarazione politica congiunta sulla partnership futura, sempre che Londra modifichi i suoi paletti.
No-deal Brexit o un secondo referendum?
L’opzione di un "no-deal Brexit", l’uscita del Regno Unito senza un accordo, rimane possibile ma remota. Un'altra alternativa è quella di un secondo referendum, che potrebbe ribaltare quello del 2016. Un referendum, il primo, promesso inizialmente dall’ex premier e leader del partito conservatore David Cameron, del cui governo ha fatto parte anche Theresa May.
Cameron, favorevole alla permanenza della Gran Bretagna nell'Ue, aveva proposto la consultazione nella convinzione che il "no" avrebbe vinto, mettendo definitivamente a tacere quella minoranza di deputati euroscettici del suo partito che però, da due anni a questa parte, continuano a condizionare la vita politica dell’intero Regno.