L’altra Milano, i «caporali» di Porta Venezia
Junior Valdivia balla da quando ha otto anni, e ora fa il maestro di danza. Fasciato da una tuta da ginnastica rosso porpora, il trentenne peruviano monitora a braccia conserte ogni gesto dei suoi allievi. A Junior piace la disciplina, l’arte ben fatta, non ha pazienza per «le ragazzate». Categorico su ogni passo falso, nasconde un sorriso compiaciuto quando le ginocchia dei suoi ballerini si posano contemporaneamente a terra, si rialzano in un salto e una piroetta e poi su, salgono, le gambe lanciate in alto a calciare l’aria, in quindici perfetti grands battements.
La palestra di Junior è il tunnel del passante della metro di Porta Venezia, a Milano. È lì che insegna ai suoi ragazzi a ballare El Caporal, una danza folkloristica nata in Bolivia alla fine degli anni Sessanta ed esportata in tutto il mondo dalla diaspora sudamericana. Questo ballo ritmato fatto di movimenti atletici e sensuali è ispirato ai sorveglianti schiavisti, i caporali. Si muove al ritmo della saya boliviana, su cadenze afro e note di cumbia che mischiano suoni elettronici e voci da videogioco.
I ballerini corrono, saltano, poi toccano terra con un colpo di tacco. Sui loro stivali sono cuciti sonagli rumorosi, per ritrovare il suono delle catene con cui i coloni tenevano prigionieri i loro servitori. I caporales tengono in mano un sombrero con cui tracciano parabole nell’aria. Poi lo lanciano, lo prendono, si girano, guardano il pubblico e ruotano il bacino. Si fermano, ammiccano, soffiano un bacio alla folla.
Gli spettatori della metro milanese sono quelli che non hanno tempo, che imboccano il passante per rincasare in provincia. «Da quando sono arrivato a Milano – spiega Junior – il punto di riferimento è sempre stato Porta Venezia, quelli che lavorano qui ci conoscono, non ci cacciano via come in altri posti».
Nelle città italiane in cui si balla El Caporal ci si allena per le strade, nelle metropolitane, dove ballare è gratis. «È una danza urbana, che in realtà non dovrebbe essere urbana, ma qui l’abbiamo resa urbana,» spiega Piero Cuispe, un caporale torinese, che aggiunge, «Noi balliamo perché questo ballo ci ricorda la nostra terra». Lo studente di fotografia vorrebbe che il suo pubblico di pendolari capisse il valore della danza. «Ci mettiamo tanto il nostro cuore perché ci ricorda la storia dei nostri antenati. È un richiamo, un richiamo di sangue magari, ed è quello che vogliamo far capire a quelli che ci guardano in giro: non facciamo niente di male».
A Milano sono più di 45.000 i residenti di origine latinoamericana, e quasi un terzo dei peruviani in Italia abita nel capoluogo lombardo. Tra loro, solo un centinaio balla El Caporal, ma la danza è seguita da tutta la comunità. Si sono mossi in più di quattrocento per assistere alla competizione tra gruppi di caporales organizzata in una palestra a Sesto San Giovanni, il 5 gennaio.
Il pubblico armato di striscioni e tamburi ha passato quasi dieci ore in piedi sulle sedie, a soffiare nei fischietti, cantare e incoraggiare i campioni. Nella comunità si dice che i caporales rappresentino un antidoto alle gang di latinos, come Barrio 18, Latin King, Trinitarios, che negli ultimi anni si sono diffuse a Milano. «Sono tanti quelli che grazie a El Caporal hanno lasciato la malavita», spiega Alfredo Bazan, leader del gruppo Caporales San Simon USA Milano, «alcuni sono anche diventati capogruppo».
Il giorno della gara i ragazzi in tuta da ginnastica di Porta Venezia sono pettinati, e portano i colori del loro gruppo su giubbotti coperti di paillettes. Le cholitas, le ragazze, si sono intrecciate i capelli con nastri colorati e pennacchi che rimbalzano sulle minigonne di strass. E poi ballano sorridenti ma col coltello tra i denti, perché saranno in pochi a superare le qualifiche per accedere alla finale. Questi ancheggiamenti e questo sudore, questa folla in delirio è benzina per le lunghe settimane di tanti fattorini, studenti, assistenti per anziani.
Poi è il turno delle machas, ragazze che ballano da sole, con i vestiti e i gesti degli uomini. «Le altre muovono il bacino e adottano una logica civettuola di seduzione, io corro e calcio» spiega Mayorli Alcocer, una macha di Barcellona in trasferta a Sesto San Giovanni per la competizione. «A me piace che la gente veda che noi ragazze possiamo fare la stessa cosa che fanno i ragazzi, ma ci vuole coraggio per mostrare agli uomini che sappiamo ballare come loro».
La consegna delle medaglie si fa tra lacrime e polemiche per un terzo posto a pari merito. Vince Ritmo Caliente, un gruppo di Torino. I ballerini milanesi si riuniscono, parlano di cos’è andato storto, individuano i punti su cui bisogna lavorare. I bambini iniziano ad addormentarsi sulle spalle delle nonne mentre si fa sera, i caporales si servono gli ultimi churros, fritti nel corridoio della palestra da un team di cuoche peruviane. I caporali e le cholitas ripongono i costumi delle custodie e salgono su autobus e furgoni. Si abbracciano, poi si danno appuntamento per il giorno dopo, a Porta Venezia.