In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
SCIENZE E INNOVAZIONEIntervisteRicerca scientificaSanitàTumori

Un ricercatore italiano ha scoperto come aiutare il sistema immunitario contro i tumori

16 Gennaio 2019 - 17:30 Juanne Pili
Le cellule tumorali hanno la capacità di rendersi "invisibili", ma un recente studio condotto sui topi potrebbe essere riuscito a scoprire una tecnica utile per boicottare questo "sistema di occultamento"

Uno dei problemi dell’oncologia è quello di affrontare la capacità delle cellule tumorali di aggirare il sistema immunitario: è come se indossassero un “mantello dell’invisibilità”, che le scherma dalle nostre difese. Forse in futuro si tratterà di un grattacapo in meno, stando ad una nuova ricerca condotta da un team dell’università della California e capitanato da Davide Ruggero.

I risultati sono stati pubblicati su Nature Medicine. Tuttavia si tratta di una ricerca condotta sui topi: questo significa che dovranno trascorrere diversi anni prima di tentare la sperimentazione sugli esseri umani. I ricercatori sono riusciti a bloccare la produzione della proteina “PD-L1”, che è la chiave di questo sistema di occultamento.

Il parere dell’oncologo Enrico Cortesi

Abbiamo contattato l’oncologo Enrico Cortesi, professore associato all’università La Sapienza di Roma, per farci spiegare la natura e le possibili applicazioni di questa ricerca.

Professore, nello studio si legge del ruolo di due tipi di geni: i Myc ed il Kras. Agendo sui primi si dovrebbe interrompere la produzione della proteina PD-L1, la quale inibisce il sistema immunitario nel combattere le cellule tumorali. In questo modo sarebbe possibile in futuro sconfiggere il cancro evitando altri tipi di terapie più invasive?

«Potremmo dire che è come se le cellule immunitarie deputate alla lotta contro quelle tumorali abbiano sulla loro superficie degli interruttori, questi le possono attivare o disattivare. Le cellule tumorali sono in grado in qualche modo di attivare questi interruttori. In questo modo le cellule che dovrebbero combatterle rimangono spente. Recentemente è stato trovato il modo di riattivare questi interruttori – là dove sono presenti però – con dei farmaci, già in uso da alcuni anni. Si chiamano “immune checkpoint inhibitors”, ovvero inibitori di questi interruttori.

Il problema è che non tutte le cellule immunitarie di tutti i pazienti presentano questi interruttori. I ricercatori hanno trovato il modo di stimolarne la formazione, rendendo i farmaci a nostra disposizione maggiormente efficaci. Questi sono utili nel 60-70% dei pazienti, per tutte le patologie per altro, in alcune in modo più frequente, come nel tumore del polmone o nel melanoma, mentre in altre assolutamente non funzionano. Si stanno cercando delle strategie tali da rendere questi interruttori maggiormente presenti, in modo da divenire bersagli dei farmaci che già conosciamo».

Lo studio è stato svolto su un tumore al fegato. I ricercatori spiegano per i tumori aggressivi come quello al fegato sarà più difficile applicare questo tipo di trattamento in maniera efficace, mentre si nutrono maggiori speranze per “linfoma, cancro del colon e polmone”. Come mai?

«Si è trattato di un modello di studio. Nei modelli sperimentali il fegato è più facile da utilizzare quando si devono indurre dei tumori ed eseguire autopsie sulle cavie».

Questo non è l’unico passo avanti compiuto nella ricerca contro i tumori. Com’è oggi l’aspettativa di vita dei pazienti oncologici rispetto a vent’anni fa?

«Già rispetto a dieci anni fa noi abbiamo raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato l’attesa di vita dei pazienti affetti da tumore non altrimenti guaribile, cioè non operabile. Parliamo di malattie in fase avanzata, un tempo per il tumore al polmone metastatico avevamo un’attesa di vita di un anno, oggi le attese vanno anche oltre i 3-4 anni. Attraverso non solo questi farmaci immunitari – ma anche con altri – abbiamo una capacità di mantenere sotto controllo i tumori metastatici molto maggiore di diversi anni fa».

Quanto tempo dovrà passare perché la recente sperimentazione arrivi all’uomo?

«Richiederà sicuramente anni. Non sarà un passaggio immediato: non meno di 5-6 anni, se va bene».

Articoli di SCIENZE E INNOVAZIONE più letti