Giornata della memoria: come raccontare la Shoah ai bambini
Anna e Michele Sarfatti sono due fratelli impegnati da sempre nello studio e nella trasmissione della storia ebraica in Italia. Lei scrittrice e insegnante alle scuole primarie, lui storico ed esperto delle persecuzioni nel XX secolo, hanno scritto nel 2013 un libro per bambini, dal titolo L’Albero della Memoria (Mondadori, 2013). Il testo ripercorre gli eventi realmente accaduti alle famiglie ebree durante le persecuzioni antisemite in Italia, narrati attraverso alcune figure di fantasia. Il protagonista è un ragazzino ebreo di Firenze, che vive i complessi anni del mutamento sociale appena precedenti all’Olocausto.
La storia è scritta in versi, una lunga filastrocca che tenta di avvicinare con delicatezza i bambini al grande tema della Shoah, anche attraverso le illustrazioni di Giulia Orecchio. La memoria, nel libro, è affidata simbolicamente all’albero a cui sia il bambino sia i genitori affidano i loro oggetti più preziosi. Open ha intervistato i due fratelli per capire come trasmettere ai più piccoli una conoscenza e una sensibilità nei confronti di una delle parentesi più buie della nostra storia.
Come si può raccontare l’Olocausto ai bambini?
«Abbiamo scelto di scrivere in rima perché la scrittura in versi porta in sé un senso di giocosità che serve nella didattica rivolta ai bambini. Una delle fonti d’ ispirazione è stata un’esposizione allestita in un kibbutz (associazioni israeliane che operano per il comune, ndr) poco a nord di Haifa, in Israele. È lì che abbiamo cominciato a capire che non è necessario raccontare o mostrare tutti gli aspetti a tutte le fasce di età. Il nostro libro si chiude senza sapere cosa sia successo ai genitori del bambino protagonista. Non propone la storia integrale di quello che è avvenuto, non parla di viaggi e deportazioni né di cosa succede nei campi di sterminio. Questo perché il racconto storico deve essere fatto in modo adeguato alle età e alle aspettative. Se è vero che i genitori possono raccontare ai figli le cose per cui li ritengono pronti, nelle classi è più complicato. Ci sono diversi livelli di maturazione dei bambini e dei ragazzini. L’insegnante può insegnare molte cose anche in età precoce se il suo gruppo è pronto a riceverle, altrimenti deve tener conto delle diverse fasi di maturazione. In questo caso, il consiglio è di parlare della persecuzione anti ebraica fino agli arresti».
Cosa cambia nei ragazzi delle superiori?
«Intanto va ricordato che molto spesso, alle elementari, il programma scolastico non arriva sempre alla seconda guerra mondiale. La sensazione è che, laddove l’insegnante ha svolto un lavoro in classe su aspetti di questo tema – che siano storici, letterari o scientifici – i ragazzi sono interessati e hanno voglia e desiderio di capire di più nell’ambito del percorso scolastico. Diverso è quando l’insegnante delega tutto alla lezione una tantum di uno storico, o affida tutta la comprensione a una gita a tema senza aver fatto un lavoro preliminare in classe. In quel caso, non funziona praticamente mai. Per avvicinare il ragazzo alle esperienze più dirette, come possono essere gli approfondimenti dei testimoni o alla gita sui luoghi della memoria, bisogna aver fatto un lavoro di classe preliminare».
Come si fa a far capire ai ragazzi il senso del giorno della Memoria?
«”Giorno della Memoria” è una definizione strutturata, adatta per gli adulti. Per gli italiani e gli stranieri in età scolastica, invece, è un giorno della conoscenza, dell’apprendimento e della riflessione. La memoria civica è qualcosa che si forma: i ragazzi stanno creando, ciascuno a modo suo, il proprio concetto di italianità. Non è possibile imporgli dall’alto una direttiva che contenga questa informazione senza dargli la possibilità e il tempo di elaborarla. Ci si possono avvicinare solo tramite gli strumenti classici dell’apprendimento.
Diventati adulti, è giusto che si parli di memoria. Qui in italia abbiamo ancora memoria civica del Risorgimento e dei suoi significati, e quindi è possibile coltivare una memoria della Shoah. Ma è una cosa da adulti, da cittadini già formati».
Alla fine del libro non si conosce il destino dei genitori del ragazzo. Per quale motivo?
«Non volevamo un finale drammatico sia per tutelare il lettore, sia per lasciare al bambino la libertà di immaginarsi cosa potrebbe succedere. Abbiamo voluto preservare la speranza nel futuro anche a fronte di un dolore disastroso. C’è chi ha detto che i genitori sono morti e poi si ritroveranno in paradiso. Chi crede invece che Samuele, una volta tornato a casa, riceverà una lettera dai genitori che gli dicono di essere salvi e che torneranno presto. Tendenzialmente la maggior parte dei bambini fa tornare almeno uno dei genitori e questa visione ci conforta molto. Abbiamo scelto di inserire la scena dell’arresto dei genitori, la più drammatica della storia, prima della conclusione per permettere al lettore di elaborare questo senso di perdita che il bambino vive. La scelta è stata quella di proteggere i lettori e di concentrare la loro attenzione sul periodo che ha portato al dramma finale, di cercare di farli ragionare sul perché si è arrivati a questo e cosa si sarebbe potuto fare: volevamo non emozionare, ma fare ragionare».
Come far sì che l’esperienza della Shoah diventi, per i ragazzi, un’occasione di riflessione sul futuro?
«Premetto che io (Michele, ndr) non credo all’idea che la storia si ripeta. La storia non si ripropone mai negli stessi termini, quindi non è possibile fare un paragone immediato tra vicende passate e attuali. Tantomeno per quanto riguarda l’Olocausto, un evento drammatico che ha avuto luogo sotto governi fascisti e nazisti che, fortunatamente, ora non abbiamo. Però, se facciamo riferimento unicamente alle condizioni politiche della Shoah, si può fare un ragionamento di similitudine. A partire dal 1938, l’anno in cui viene varato il sistema delle leggi anti ebraiche in Italia, gli Stati iniziano ad adottare misure più o meno equivalenti. L’espulsione degli ebrei, la revoca della cittadinanza, il blocco degli ingressi degli ebrei stranieri. Si propone così la questione degli ebrei profughi, gli ebrei erranti, che non trovano un posto dove andare. Non hanno frontiere che li accolgono: una situazione di una drammaticità indicibile».