Chiara, 28 anni: in Africa per raccontare la diaspora dal Camerun alla Nigeria
Sono passate poche ore dallo sbarco dei migranti dalla nave Sea Watch. Per dodici giorni l’Italia e l’Europa si sono scontrate su chi avrebbe dovuto farsi carico di 47naufraghi. Quarantasette. In Nigeria, nel Cross River State, decine di migliaia di profughi della minoranza anglofona, perseguitata e in fuga dal Camerun, sono accoltidagli abitanti dei villaggi prima ancora che nei campi profughi. Sarebbero, secondo Medici senza Frontiere, trentacinquemila. 47contro 35.000.
Open ha intervistato Chiara Paci, che lavora nella comunicazionedi Medici senza Frontiere, appena tornata dalla Nigeria. «Il Cross River State – ci racconta – è una zona a sud-est della Nigeria, una macchia verde nella foresta. Prende il nome dal fiume che l’attraversa e che fa da confine con il Camerun».
Ma cosa sta succedendo veramente in quell’area?
«Decine di migliaia di persone si stanno spostando a causa di una crisi politica e di repressione della comunità anglofona in Camerun: alcuni fuggono all’interno del Camerun stesso, mentre altri riescono ad attraversare il confine e ad arrivare nel Cross River State. Però, come si puòimmaginare, i villaggi del Cross River State vivono già in condizioni economiche, sociali e sanitarie estreme: questo afflusso di rifugiati non ha fatto che andare a caricare i villaggi di nuovi problemi»
E come sono stati accolti i profughi dalla popolazione locale?
«Le storie che ho raccolto sono storie che parlano essenzialmente di accoglienza. Accoglienza perché ci sono dei forti legami sia culturali che linguistici fra le due popolazioni, quella nigeriana e quella del Camerun. Le persone sono state accolte nei villaggi come fossero “fratelli e sorelle”: sono esattamente le parole che mi ha detto uno dei ragazzi nigeriani che ho conosciuto e ho intervistato e che acasa sua ospitatutt’oggi diversi rifugiati. Questa accoglienza da parte della popolazione locale c’è stata soprattutto all’inizio della crisi, quando i primi rifugiati hanno iniziato ad attraversare il confine».
Poi sono arrivate le organizzazioni internazionali?
«Sì. È successo poi, nel corso dello scorso anno, che l’intervento delle organizzazioni internazionali si è fatto più importante (tra queste anche Medici Senza Frontiere)e la situazione dell’accoglienza si è po’ diversificata. Sono stati costruiti dei campi profughi e parte dei rifugiatisi è spostata lì. Io li ho visitato uno di questi campi. Ovviamente, lavorando nella comunicazione, avevo visto tantissime foto e video di campi rifugiati in tutto il mondo, dall’Africa al Medioriente. Però camminare su quella terra rossa e vedere veramente le tende piccolissime in cui vivono intere famiglie a volta di una decina di persone è veramente difficile da spiegare».
E come vivono le persone in questi campi?
«Ho parlato con i rifugiati che vivevano lì, che vivono lì da diversi mesi, quasi un anno, e ho raccolto varie storie. Fra quelle che mi rimangono più vive nella memoriac’è quella di Justine. Una donna con cui ho parlato e che ho disturbato mentre stava cucinando il pasto per la sua famiglia, in unpiccolo fornello che aveva fuori dalla sua tenda. Mi sono seduta accanto a lei mentre continuava a cucinare e mi raccontato della sua fuga dal Camerun: la cosa veramente incredibile è che non sa realmente il motivo che l’ha costretta alla fuga, cioè le cause politiche che hanno scatenato la persecuzione. È uno degli aspetti che mi ha più colpito. Molte persone, soprattutto le donne, non sanno perché sono fuggite, non sanno quello che sta succedendo in Camerun: sanno solo che l’hanno dovuto fare per sopravvivere e per la salvaguardia dei propri cari, dei propri figli. Hanno perso praticamente tutto, e adesso stanno cercando di ricostruirsi una vita lì».
Ti ha raccontato il suo viaggio verso Cross River State?
Sì. Mi ha detto che dopo aver passato alcuni giorni nella foresta con i suoi trefigli, quando è riuscita ad attraversare il confine è stata accolta in uno dei villaggi. Poi è stata spostata in questo campo rifugiati. Mi ha raccontato di avere il diabete e di non poter mangiare il riso che le organizzazioni distribuiscono come vitto nel campo rifugiati e quindi si stava arrangiando con quello che trovava nel campo utilizzando il baratto. Le ho chiesto quanti anni avesse e con mia grande sorpresa mi ha risposto: “27”.Io ne ho 28. Ho pensato: io ho davanti a me una mia coetanea. Quella che potrebbe essere una mia amica, una mia confidente. Per me era fino a pochi secondi prima una donna che mi immaginavo più anziana, più grande e con un’esperienza diversa. Eravamo allo specchio in quel momento, era esattamente una ragazza come me».
Quindi mi stai dicendo che queste persone non conoscono il motivo delle persecuzioni che subiscono e che li spingono alla fuga?
Gli uomini sono più inseriti a livello sociale e quindi hanno più contezza di quelle che sono le dinamiche sociali nel proprio Paese di origine. Le donne ne rimangono di solito un po’ al di fuori. E perché fondamentalmente non ci dobbiamo immaginare i mezzi di comunicazione e di diffusione delle notizie che abbiamo noi. Loro hanno visto avanzare una crisi e la violenza nei propri villaggi. E nel momento in cui tu vedi che la tua casa viene distrutta, il tuo villaggio che viene messo a fuoco l’istinto naturale è quello di scappare. Il passaparola porta a conoscere poi piano piano quella che è la strada verso il confine, ma non tutti sono riusciti ad attraversarlo. Non sappiamo, visto che le organizzazioni non hanno accesso facile in Camerun così come i giornalisti, neanche quante sono le persone sono rimaste bloccate nella foresta nel tentativo di attraversare il confine: molti probabilmente hanno perso la vita.
Non c’è modo di sapere quanti sono?
È difficile avere un numero. I numeri che ti posso dire e che sono documentati sono di circa 35.000 persone che hanno attraversato il confine e quindi sono arrivati nello stato di Cross River e più di 400.000 che invece sono sflollati interni al Camerun, magari cercando appoggio da amici, conoscenti o semplicemente fuggendo dalla loro casa, dal loro villaggio natale.
È difficile riuscire a capire cosa sta succedendo veramente in quelle zone, ricostruire i motivi che hanno scatenato la crisi?
È difficile ricostruirlo dai racconti delle persone ed è difficile documentarlo perché è una crisi di stampo prevalentemente politico, ma che ha avuto una escalation di violenza molto forte. Quindi le condizioni di sicurezza in Camerun rendono difficile per giornalisti e associazioni umanitarie essere presenti in maniera stabile per documentare quello che sta succedendo. Però il dato di fatto è che queste persone hanno lasciato le proprie case e sono state accolte in uno stato come la Nigeria: ennesimo caso di migrazione interna all’Africa molto poco conosciuto. I numeri sono importantissimi, sono enormi, ma nessuno li conosce. Medici senza frontiera sta portando un aiuto sanitario, ovviamente. Quindi visite mediche sia alla popolazione rifugiata che a quella locale. Ha avuto un grosso impatto sui villaggi perché il progetto è iniziato con interventi di potabilizzazione dell’acqua, costruzione di latrine, costruzione di pozzi. Inoltre abbiamo potuto testimoniare queste storie, abbiamo potuto dare una voce alle storie di queste persone. Per noi è importante portare alla luce crisi che pochi conoscono.