«Messa alla prova» per il minore coinvolto nella morte di un clochard. Di cosa si tratta?
Il 13 novembre del 2017 due ragazzi di 13 e 16 anni danno fuoco a Ahmed FdIl, un clochard marocchino di 64 anni che da tempo dimorava in un'auto a Santa Maria di Zevio (Verona). Dopo una serie di attentati protratti nel tempo, i ragazzi decidono, per divertimento o per noia, di gettare della carta infuocata nel finestrino della vettura. Le fiamme divampano e Ahmed muore carbonizzato.
Al momento del fatto, il primo ha un'età non imputabile che lo esonera dalla condanna. Al secondo, invece, vengono concessi dal Tribunale di Venezia tre anni di messa alla prova: servizi sociali, volontariato, psicoterapia. La messa alla prova è una modalità educativa alternativa alla condanna punitiva, entrata ufficialmente nella giustizia penale minorile con il decreto 448 del 1988. Costituisce la possibilità per il minore di ottenere la sospensione del processo e di iniziare un percorso, monitorato dal tribunale e gestito dai servizi sociali ministeriali e territoriali, attraverso il quale il ragazzo può gradualmente assimilare le regole volte a reinserirlo nel contesto sociale.
Tra gli ideatori di questo decreto, che costituì una vera e propria riforma per l'ordinamento italiano, c'era Alfredo Carlo Moro, magistrato minorile e fratello di Aldo Moro. L'innovazione mirava, dopo attente valutazioni sul caso, a istruire e riabilitare i ragazzi nella società, piuttosto che a punirli semplicemente. Come affermò Moro, «non è il passato che va analizzato, ma il futuro che va programmato».
Tiziano Vecchiato della Fondazione Zancan, un centro di studi e ricerca sociale attivo dal 1964, ha spiegato a Open che la riforma non ha sempre colto preparati gli esponenti della magistratura. «La messa alla prova parte da un presupposto fondamentale, che è poi quello che distingue classicamente il codice minorile da quello degli adulti: a volte i ragazzi possono fare degli errori colossali senza che se ne rendano conto».
Ma discernere i casi non è così semplice, e necessita di un particolare studio degli elementi su più livelli. «In certi casi è stato usato come un bypass giuridico», ha fatto notare Vecchiato. «Invece che metterti in una comunità chiusa per lo sconto di pena, si decide di dare fiducia al minore per consentirgli di impegnarsi a dimostrare di non essere quello che sembra. Qualora superasse la prova, la pena viene cancellata».
Vecchiato sottolinea come i propositi della riforma siano nobili e ambiziosi. Ma che allo stesso tempo pone davanti a dei rischi non indifferenti, e a domande che la riforma 448 portava già nel suo DNA: «Distinguere tra i minori chi è da riabilitazione e chi da condanna – ha continuato – è davvero un problema da non sottovalutare. Certe messe alla prova sono delle finzioni giuridiche».
Anche nel caso dei due minori coinvolti nell'omicidio di Ahmed, le domande e le questioni sono le stesse. Ma oltre a questo, c'è da aggiungere un altro livello di complicazione della vicenda: «Se quella persona non fosse stata povera – si chiede Vecchiato- e se non avesse fatto parte degli ultimi, allora sarebbe stato lo stesso? Sono domande a cui occorre dare una risposta».
A sentenza proclamata, l'unica risposta possibile è l'attesa: saranno i ragazzi e i loro cambiamenti a dimostrare la correttezza o meno di una scelta così radicale.