I debiti dell’«Unità», i ricatti, le colpe del Pd. Concita De Gregorio racconta la sua odissea giudiziaria
«Ho deciso di raccontare la mia odissea per tutelare i giovani giornalisti. Quello che sta succedendo a me è capitato ad altri e rischia di accadere ancora. I grandi editori stanno finendo: se vogliamo che il giornalismo continui a essere libero, bisogna trovare nuovi strumenti di tutela». Mentre racconta la sua “odissea”, Concita De Gregorio non perde mai la calma. Restituisce uno dopo l’altro, con voce chiara interrotta solo da qualche tiro di sigaretta, i particolari – date, omissioni, incontri, leggi – di una brutta storia che comincia otto anni fa con le dimissioni da direttrice dell’Unità e arriva ai tweet della scorsa settimana, quando la giornalista – firma di punta del quotidiano La Repubblica – ha denunciato di essere l’unica a pagare le spese delle cause civili legate agli anni della sua direzione. Un milione di euro che spetterebbe all’editore, ma che – a causa del crack societario e di una legge del 1948 ancora in vigore – è stato prelevato negli anni direttamente dai conti bancari dell’ex direttrice del giornale fondato da Gramsci e chiuso definitivamente nel 2017 dopo anni di tribolazioni economiche e societarie.
Dopo l’ultimo pignoramento disposto dai giudici per la condanna di diffamazione – non definitiva – di Stefano Andrini, ex presidente dell’Ama di Roma durante la giunta Alemanno, che fu definito sulla sua Unità «ex naziskin al vertice Ama», lei ha scritto su Twitter parole molto dure. Come mai ha scelto la tribuna, non certo razionale, del social network, dopo anni di silenzio, per denunciare la vicenda?
«Perché è stato superato un limite. In questi anni ho dovuto pagare per chiunque, ma che mi venga sequestrato il conto per Stefano Andrini è una cosa che non posso tollerare: non voglio dare i miei soldi a uno che ha quasi ammazzato una persona a sprangate. La ricreazione è finita, dobbiamo tutti tornare ai nostri posti di lavoro. Se io mi fossi fatta eleggere in Parlamento, avrei l’immunità. Ma ho sempre detto no perché mi interessa solo fare il mio lavoro. Così come non mi voglio ritirare a vita privata né andare all’estero. Quando la scorsa settimana sono scesa dalla car to go e il mio credito di 2 euro e 60 era stato pignorato ho pensato che era stato superato un limite. Non posso pagare le bollette, giro con i mezzi pubblici, sottoscrivo contratti simbolici da 2 euro per continuare a fare il mio lavoro con dignità, sorriso, forza. Non sto certo bevendo caipirinha sui terrazzi romani»
https://twitter.com/statuses/1091662331325702144
Si è pentita di aver scritto quei tweet?
«No, è un mondo di ferocia, dove regna molta ignoranza e inconsapevolezza. Deve essere chiaro che quello che mi è successo è un problema per chi vuole fare il nostro lavoro. L’insidia economica che ti toglie l’aria e la vita è la vera minaccia. Se fossi morta, oggi avrei una medaglia, i miei figli percepirebbero un’indennità, ma non sono morta: sono sbeffeggiata in continuazione e nessuno capisce di cosa stiamo parlando».
Cominciamo allora.
«Esiste una clausola che devono preoccuparsi di firmare tutti i giornalisti per tutelarsi da una legge del 1948 che definisce redattore, editore e direttore "responsabili in solido” rispetto ai danni patrimoniali causati da un articolo ritenuto dai giudici diffamatorio della persona. In base alla norma, ciascuno dei soggetti deve appunto farsi carico di una parte del debito. Essere sollevati da questa responsabilità si chiama “clausola di manleva”. Tutti i giornalisti – inviati, direttori, vicedirettori – hanno la facoltà e il diritto di richiederla perché, nel caso di questioni giudiziarie, è l’editore che deve farsi carico delle spese relative alle cause legali. Questo perché il rischio di impresa di un editore consiste proprio nel tutelare la libertà della redazione, altrimenti sul lavoro dei giornalisti graverebbe una minaccia economica troppo forte. Il mio contratto da direttrice dell’Unità non aveva quella clausola e io me ne sono accorta troppo tardi».
Quando?
«Quando sono arrivati gli ufficiali giudiziari a pignorare i miei beni. Allora ho fatto una causa di lavoro a Nie (Nuova Iniziativa Editoriale), la società editrice, e l’ho vinta. Il Tribunale del Lavoro di Roma ha emesso una sentenza che fa giurisprudenza: anche se direttore e giornalista non hanno sottoscritto il "patto di manleva", l’editore è tenuto a sollevarli dalla responsabilità perché sono lavoratori dipendenti».
Lei però continua a pagare.
«I sequestri sono cautelativi, perché le cause sono in attesa di giudizio definitivo, e visto che le “vittime” non possono rivalersi sulla società editrice – che non c’è più – né sui giornalisti, molti dei quali sono disoccupati, pago io per tutti. Ci tengo a dire che – da direttrice – non ho mai perso una causa penale per diffamazione. Qui parliamo di cause civili, in cui l’eventuale danno di immagine causato dall’articolo prescinde dall’accertamento della responsabilità penale.
Sono azioni, spesso infondate, che i potenti fanno per intimorire: aggrediscono il patrimonio per fare paura. Non dimentichiamo che nel triennio 2008-2011 l’Unità era il principale organo di opposizione a Berlusconi. Il giornale ha avuto decine e decine di azioni temerarie: il generale Mori, Paolo Berlusconi, Silvio Berlusconi, Stefano Andrini… Abbiamo subito decine di cause di persone di centrodestra potentissime che esercitavano così un’azione intimidatoria nei confronti del giornale. Il diritto del creditore è prioritario, quindi prende i soldi dove li trova: sui tuoi conti o andando direttamente dal tuo datore di lavoro».
Chi dovrebbe sostenere le spese che sono a carico suo?
«L’editore del giornale che mi ha assunto, Renato Soru, è oggi europarlamentare del Pd. Chi ha fatto la trattativa con Massimo Pessina per riaprire l’Unità è stato Matteo Renzi. L’Unità tecnicamente non era partecipata del Partito Democratico, ma di fatto era il giornale del Pd. Perlomeno delle spese legali avrebbe dovuto farsi carico. Probabilmente non era “dovuto” tutelare il direttore e i giornalisti del proprio giornale, ma era certo una prova di responsabilità».
Renato Soru
Che risposta ha avuto in questi anni dagli esponenti del partito?
«A un certo punto sono andata a parlare con Andrea Orlando, all’epoca ministro della Giustizia, con Luca Lotti, sottosegretario con delega all’Editoria, Lorenzo Guerini, delegato alle questioni con Editoria e con l’ex tesoriere Francesco Bonifazi. La risposta sempre la stessa: "noi non siamo gli editori". Così ho deciso di andare in tribunale, perché penso che la giustizia si affronta in tribunale non contrattando posti di in Parlamento. Se hai diffamato devi pagare, ma io non ho mai diffamato nessuno: pago per conto di altri la quota da editore in maniera cautelativa. Quando gli avvocati mi dicono che devo andare via dal Paese perché mi sequestrano anche la carta di debito con cui pago il car sharing, io rispondo che ho il dovere morale di restare. La legge va cambiata a tutela dei nuovi giovani giornalisti. La minaccia economica è invisibile ma potente. La Federazione della stampa non esiste, l’Ordine dei giornalisti non esiste. Santo Della Volpe, ex presidente dell’Fnsi, è morto con le mie carte in mano. Nessuno della nostra categoria ha più alzato un dito dopo di lui. Il Parlamento deve cambiare questa legge liberticida».