Federico Mecozzi: «A 26 anni dirigo l’Orchestra di Sanremo e mi diverto troppo»
A Sanremo la lente d’ingrandimento è sempre puntata sui cantanti, sono loro i protagonisti. Acclamati, fischiati, tutto ruota attorno alle performance canore. Poco si sa, invece, di chi quelle performance le guida e le accompagna. Di rado l'occhio cade, per esempio, sui direttori d’orchestra. Ma sul palco dell'Ariston quest'anno c'è Federico Mecozzi, 26 anni. Non solo uno dei più giovani direttori d’orchestra italiani, ma anche il più giovane direttore di questa edizione del Festival.
Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare come vive quest'avventura. «Mi sono appena svegliato, stanotte abbiamo smontato più tardi del solito. È un'esperienza surreale per me», ha detto ridendo. Federico è violinista, polistrumentista, da nove anni accompagna Ludovico Einaudi nei suoi tour in giro per il mondo. Ora è anche direttore d’orchestra per il più celebre Festival italiano, «per passione più che per lavoro», dice. «Avevo 5 anni quando mi sono avvicinato per la prima volta al mondo della musica. Ho imbracciato la chitarra, il mio primo amore, per il desiderio di imparare a suonare De Andrè »
Quindi non hai esordito subito come violinista?
«No, il violino è arrivato dopo. Avevo 12 anni, un’età già avanzata per cominciare a suonare uno strumento nuovo, complicato come il violino. Mi sono iscritto al Conservatorio per studiarlo, mi affascinava. Poi il mio amore per il Conservatorio è durato poco»
Non sarai un genio ribelle della musica?
«Ma quale genio, magari! Sono sempre stato diligente. E che, insomma, la base classica che ti può dare il Conservatorio va bene fino a un certo punto. Poi basta. Sono un musicista cui piace sperimentare, con il violino puoi fonderti con qualsiasi genere: il pop, il folk, il rock… »
Hai ereditato la vena musicale da qualcuno, in famiglia altri suonano come te?
«In realtà no. Mio fratello ha avuto una parentesi con il pianoforte, per poi accantonarla. Quello che ha incrementato il mio interesse è stato l’avere un padre che mi ha svezzato a pane e musica. Abbiamo ascoltato di tutto, sempre».
Da nove anni suoni in tour con Ludovico Einaudi. Ci racconti come hai iniziato?
«La storia del mio percorso con Einaudi è iniziata davvero per puro caso. L’anno che l’ho incontrato la prima volta, lui era direttore artistico di un festival musicale che si tiene a Verucchio, paese nel quale sono nato, vicino Rimini. Mi era stato chiesto per la serata conclusiva del festival di omaggiare Einaudi con un suo pezzo rivisitato da me, ovviamente al violino. Quella sera sono salito sul palco e ho suonato, con lui in platea che mi ascoltava!»
E poi?
«Dopo l’esibizione si è avvicinato e mi ha detto di essere rimasto colpito da quella esecuzione, mi ha chiesto di tenerci in contatto. Avevo 17 anni, andavo al liceo e lui un giorno mi ha chiamato per dirmi che mi voleva nella sua orchestra, a suonare in giro per il mondo. Era una proposta che non potevo rifiutare (fa il verso alla battuta tratta da Il Padrino, ndr). C’è un rapporto di totale stima, e fiducia sul lavoro. È stata una delle cose migliori mi sia mai capitata».
Passiamo invece al tuo nuovo lavoro, quello da direttore d’orchestra: com’è dirigere, ma soprattutto, com’è dirigere l’Orchestra e i cantanti di Sanremo?
«Dirigere è diverso, chiaramente, da suonare. Tra l’altro la mia è più curiosità, passione per un mestiere che non è il mio. Direi che è più un passatempo molto divertente. Dirigere sul palco dell'Ariston è stato complicato per i primi secondi della prima serata: quando tutto inizia, il backstage è trafficato, la tensione è alle stelle per tutti. Il panico lo puoi toccare. Sono salito sul palco, dopo qualche istante non ricordavo neanche ci fosse il pubblico. Mi sono lasciato portare dalla musica, anche perché il brano che dirigo (Nonno Hollywood cantata da Enrico Nigiotti, ndr) dal punto di vista della melodia è totalizzante ».
Cosa ne pensi della nuova proposta musicale di quest’anno? Ci sono la trap, l’indie. Pensi stonino con una cornice considerata “sacra” come quella sanremese?
«Sono generi che ascolto poco, ma lo faccio. È giusto, secondo me, per un musicista a tutto tondo essere aperto e aggiornato. L’offerta è tanta, molto varia, dobbiamo avere dimestichezza nell’affrontare generi diversi. Evviva questa frontiera più alternativa, ci voleva. I tempi stanno cambiando, Sanremo deve adeguarsi se vuole continuare a detenere lo status di Festival della canzone italiana per eccellenza».
Ogni direttore d’orchestra ha il suo stile, la sua idea di armonia. Qual è la tua?
«Proverò a spiegarlo a parole, so che può essere complicato capirlo. La mia è una direzione emotiva. Mi spiego meglio: cerco di farmi trasportare dalla musica nel modo più naturale possibile, senza avere troppi paletti mentali, senza aggrapparmi troppo alla tecnica che è importante, ma non basta. Quando sono dentro la musica, il compito successivo è quello di creare un suono e un cantato omogenei. Deve esistere una suggestione emotiva del suono, se manca a mio avviso diventa meccanico e plastico ».
Come è stato lavorare con l’Orchestra di Sanremo?
«È stato letteralmente pazzesco. Gli elementi che compongono l’Orchestra sono lavoratori instancabili, pazienti e testardi nel voler raggiungere il risultato migliore. Stanno in quella trincea (la trincea è la buca d'orchestra, ndr) per ore, giorni. A volte ti chiedi se mangino e dormano nel tempo libero. E, cosa da non sottovalutare, sono professionisti di livello. Mi spiace non averli potuti conoscere uno ad uno, di persona. Sono troppi! »
I prossimi impegni?
«Uscire vivo da questo meraviglioso caos. Domenica vi faccio sapere se sono sopravvissuto, mi sto divertendo troppo!»