I sogni e le paure dei giovani iraniani d’Italia, a 40 anni dalla rivoluzione
Il primo incontro di Mammad con l’Italia è stato a Roma. Arrivato per studiare architettura si è poi trasferito a Milano. Sahar studia belle arti e vive in Italia da quattro anni, parla italiano fluentemente così come Shiva, anche lei un’aspirante artista. Hamid ha sempre avuto un amore per il nostro Paese, suo zio vive in Italia da molti anni, e la considera la sua seconda casa. Tutti loro hanno una cosa in comune: se ne sono andati dall’Iran dopo essere cresciuti in un Paese cambiato con la caduta della monarchia. Il loro racconto, le loro sensazioni, su un avvenimento che ha cambiato le loro vite. L’11 febbraio del 1979 il primo ministro Shapur Bakhtiar lasciava l’Iran, i sostenitori dell’Ayatollah Khomeini prendevano controllo di Teheran: la rivoluzione aveva vinto. Oggi, a quarant’anni di distanza, la rivoluzione islamica rimane uno degli avvenimenti più inaspettati e sorprendenti del ventesimo secolo. Gli eventi che si susseguirono tra il novembre del 1978 e il febbraio del 1979 sconvolsero il Medio Oriente e il resto del mondo diventando uno dei momenti più decisivi della guerra fredda.
Nessuno si aspettava che la caduta dell’ultimo scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlevi, avrebbe avuto ripercussioni così durature e catastrofiche, soprattutto per gli Stati Uniti che nel giro di poche settimane persero il loro miglior alleato della regione, bastione contro l’influenza sovietica e pilastro degli interessi economici e strategici di Washington. Ma se per gli Usa l’avvento di Khomeini arrivò come un fulmine a ciel sereno, non fu lo stesso per le milioni di persone che si riversarono nelle strade di Teheran dando vita a «la più grande mobilitazione di massa del ventesimo secolo». «Le persone erano stanche dello Scià, vivevano in miseria, c’era tanta povertà», racconta a Open Mammad, studente iraniano che vive in Italia da quasi dieci anni. Con la caduta dello Scià e la nascita della Repubblica Islamica molti iraniani hanno lasciato il Paese. «Sono venuto in Italia ma non rimpiango la dinastia Pahlavi. C’è tanta propaganda da parte degli oppositori del regime a favore della figura di Mohammad Reza. Vengono mostrate immagini dell’epoca in cui si vede gente ricca e felice, immagini che secondo alcuni ricordano scene europee».
Una tecnica che alcuni definiscono “strumentalizzazione della nostalgia”. Foto di donne senza velo e in minigonna riempiono ciclicamente le pagine dei giornali che ricordano il tempo della monarchia Pahlavi, raccontata con parole quasi di malinconia di un’epoca gloriosa. Ma la rapidità dell’urbanizzazione, la crescita demografica e l’influsso di capitali provenienti da un aumento del petrolio, a seguito della crisi energetica del 1973, e la rivoluzione bianca del 1963, avevano portato a uno sviluppo economico troppo veloce e ineguale. I ricchi erano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Secondo l’organizzazione mondiale della sanità il 40% della popolazione era sotto nutrita. «Ammetto che oggi le donne sono molto più educate», confessa Mammad. «Hanno fatto un salto in avanti molto importante».
Ma gli Stati Uniti accecati dalla necessità di contrastare l’Unione Sovietica non videro i semi di una rabbia che cresceva sempre di più. Rabbia nata dall’intervento americano e inglese – nel colpo di stato del 1953 contro il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq – dopo la nazionalizzazione da parte di quest’ultimo dell’azienda petrolifera iraniana, escludendo i guadagni di Washington e Londra. «Negli ultimi anni», racconta Sahar, «l’Iran aveva iniziato a diventare più indipendente dagli Usa». Anche lei vive in Italia da molti anni, ma rimpiange il periodo pre-rivoluzionario: «Non c’ero, ma penso che lo Scià avrebbe potuto fare molto per il Paese se gli fosse stato concesso di rimanere. Dalla rivoluzione tutto è cambiato in peggio».
Dopo il 1953 Mohammad Reza Pahlevi trasformò il Paese in un regime autoritario controllato dalla Savak, i temutissimi servizi segreti, responsabili di torture e arresti arbitrari contro dissidenti e oppositori del governo monarchico. Alla fine degli anni ’70 chi seppe cogliere il momento fu l’Ayatollah Ruhollah Khomeini in esilio a Parigi che incoraggiò il popolo a protestare. Dai liberali, alla borghesia dei Bazaari (mercanti), fino ai marxisti e comunisti del partito Tudeh, la figura di Khomeini raccoglieva l’appoggio delle fasce più disparate della società iraniane accomunate da un unico intento: veder cadere lo Scià.
«All’epoca mia madre aveva 16 anni», ci racconta Shiva, in Italia per studio. «Si sono trovati in una situazione dove i giovani protestavano ma non sapevano perché. Nè mia madre, nè molti altri avevano mai visto Khomeini, nessuno lo conosceva». Shiva è una dei quasi 30.000 iraniani che vivono in Lombardia. «Sono andati nelle strade per cercare un futuro migliore, ma non sapevano cosa cercavano». Concorda anche Mammad: «Tutti scendavano in piazza senza un obbiettivo». Non era la prima volta che il clero sciita diventava protagonista di dimostrazioni di massa. Già nel 1906, con la rivoluzione costituzionale che diede all’Iran un parlamento e una costituzione fu l’influenza e l’appoggio del clero a permettere al popolo di conquistare più libertà dallo scià Mozzafar al Din. Anche nel 1979 fu il clero a raccogliere il maggior consenso facendo convergere le fasce più svantaggiate e povere della popolazione nella sua retorica populista.
Qualcuno cadde nella trappola di Khomeini, tessuta e preparata da anni di ingerenze esterne e dallo sfruttamento delle risorse del Paese. “Morte all’America”, uno degli slogan della rivoluzione non fu il mero sfogo di un Paese diventato estremista ma l’epilogo naturale di politiche americane che avevano fatto dell’Iran un burattino nelle mani di Washington. Quei dieci giorni, dal primo di febbraio, ritorno in patria di Khomeini, all’11 febbraio, cambiarono la storia dell’Iran e degli Stati Uniti, allontanando Paesi che per più di 40 anni erano stati fedeli alleati. L’episodio della presa dell’ambasciata americana e la crisi degli ostaggi del 4 febbraio del ’79, portato al cinema negli ultimi anni dal film Argo, segnò una crepa ancora più profonda nei rapporti tra Iran e Usa. Per Mammad i problemi dell’Iran iniziano proprio allora, in quella folle decisione. «Quella scelta ci ha rovinati e ha avuto conseguenze sul nostro futuro, sul futuro della mia generazione». Mammad è scappato dall’Iran nel 2009 dopo la rivoluzione verde seguita ai brogli elettorali che hanno visto la rielezione di Ahmadinejad.
Teheran e Washington non sono mai state più distanti di oggi. Dopo l’uscita di Donald Trump dall’accordo sul nucleare iraniano il Paese di Rouhani è piombato in una crisi economica profonda. «Il mio passaporto non vale niente. Ho fatto domande per entrare in università americane e canadesi ma la mia nazionalità è sempre un problema» dice Sahar. «Una volta avevamo una reputazione a livello internazionale», afferma con un po’ di rabbia Hamid. Anche lui è venuto in Italia per proseguire i suoi studi. «Con la reimposizione delle sanzioni a essere colpiti sono stati soprattutto i cittadini iraniani. I salari sono rimasti gli stessi mentre i prezzi hanno subito un’inflazione molto forte». Hamid studia ingegneria elettrica, si è laureato con 110 e lode, ma in Europa si sente un cittadino di seconda categoria. «Per me è impossibile aprire un conto bancario, non mi aspettavo una situazione simile».
Le sfumature della rivoluzione sono tante così come le interpretazioni dei giovani che non l’hanno vissuta ma ne hanno pagato le conseguenze. «L’unica cosa che ci può salvare è l’educazione», dichiara malinconica Sahar. «Amo il mio Paese, ma come posso tornare in Iran e cambiare le cose?». Anche Mammad spera che l’Iran cambi lentamente: «Forse cambiare è nel Dna persiano, ma questa volta non faremo una rivoluzione, andremo a piccoli passi. Abbiamo imparato dagli errori del passato».