«I am the revolution», dall’Afghanistan alla Siria: storie di donne in guerra
Rojda Felat indossa una tuta mimetica, i suoi capelli sono raccolti in una lunga treccia. Yanar, capelli ricci, impugna un microfono e parla nelle strade polverose di Baghdad. Selay non si ferma mai, da Kabul a Jalalabad, la sua famiglia sono le donne e le ragazze a cui ha deciso di dedicare la vita. Le tre donne vengono da Paesi diversi: Siria, Iraq e Afghanistan, ma tutte e tre hanno un destino che le accomuna: I am the revolution, io sono la rivoluzione.
Il documentario di Benedetta Argentieri è un viaggio nel Medio Oriente delle donne: dalla militante curda nel Rojava siriano alla lotta contro la violenza femminile di Yanar Mohammed in Iraq, passando per l’Afghanistan di Selay Ghaffar e la sua instancabile campagna per l’istruzione femminile. Uno sguardo diverso su un mondo nascosto dietro il velo: delle donne che lo indossano, ma anche dell’Occidente, presente sui campi di battaglia, ma lontano dal vissuto quotidiano. Un viaggio che Benedetta Argentieri, regista e giornalista che ora vive negli Stati Uniti, ha fatto e che racconta a Open.
Selay Ghaffar in un villaggio afgano
Quando e come è nata l’idea?
«È la conseguenza di tutti i miei viaggi, in cui mi sono resa conto del fatto che esisteva un certo stereotipo sulla donna. In particolare la donna combattente era vittima di uno stereotipo che la ritraeva come la guerrigliera sexy. In questo modo si spogliano queste donne delle ragioni che le hanno portate a compiere una scelta del genere. Il primo vero grande passo è stato nel settembre del 2015 quando Yana, la protagonista irachena, è venuta a New York, e da allora sono rimasta folgorata dalla sua storia e dalle sue capacità che ho deciso che avrei dovuto rivederla proprio in Iraq».
Yanar Mohammed
E poi?
«Il percorso è stato molto lungo. Sapevo di voler raccontare la storia di Rojda, la donna curda che combatte l’Isis, e delle sue amiche in un certo modo. Alla fine ho pensato di voler narrare queste storie in un unico documentario. Tante volte pensiamo a queste lotte come se fossero una cosa avulsa o una scheggia impazzita nella regione. Volevo fare un lungometraggio che fosse un affresco di diversi Paesi, ma che mettesse in evidenza anche i modi diversi con cui queste donne lottano, pratiche diverse che insieme fanno un unico movimento».
Rojda Felat
Quali sono per te i temi principali del documentario?
«Al primo posto educazione e istruzione, attraverso cui puoi pensare di aiutare un’altra persona e di formare una comunità. Le tre donne ne sono un esempio, non potrebbero andare avanti senza le loro comunità. Un altro tema è quello della parità di genere che, da come si vede nel film avviene attraverso un coinvolgimento degli uomini, diventa una soluzione condivisa e non un imposizione da una parte o dall’altra. Tutte e tre si muovono su questi tre punti cardine. Ovviamente c’è stata una scelta di produzione di concentrarsi sullo sguardo femminile. Noi stesse siamo una squadra di sole donne, è stata una scelta di carattere: per una volta c’era bisogno di sentire un messaggio dalle donne portato avanti da donne. A volte lo sguardo maschile non è sufficiente per spiegare certe sfumature».
Cos’hanno in comune e quali sono le differenze?
«Ovviamente la lotta di Rojda nel Kurdistan siriano è diversa rispetto a quella di Yanar in Iraq: sono diversi i contesti. Tuttavia, se in apparenza hanno approcci diversi, portano avanti un obiettivo comune: quello di far avanzare le donne nei loro rispettivi Paesi, con pratiche che rispecchiano le differenze politiche dei contesti in cui vivono».
Cosa ti porti a casa da questo viaggio?
«Sono rimasta colpita dall’Afghanistan che è di una bellezza infinta. Il contesto afgano mi ha stupito molto, le sue contraddizioni e i suoi contrasti: un Paese di una bellezza senza senso, ma allo stesso tempo di una crudeltà e una ferocia a volte indescrivibile. Basti pensare che solo il 14% delle donne afgane sa leggere e scrivere dopo 19 anni di una guerra in cui i diritti delle donne dovevano essere portati su un palmo di mano».