Da «cancelliamo l’immunità» a «salviamo Salvini», il M5S ha tradito i suoi ideali? No
«Se dovessi modificare la Costituzione, toglierei l’immunità», Luigi Di Maio, 25 novembre del 2016. Fino a oggi, il M5S era stato coerente con questa posizione: ci si difende nei processi, non dai processi, nessun privilegio per i rappresentanti del popolo. Prima del caso Diciotti, sono stati numerosi i casi in cui il Movimento fondato da Beppe Grillo ha dato il via libera agli arresti o al carcere.
Più di trenta negli ultimi sei anni. Personaggi noti e meno noti. Vicende giudiziarie diverse e capi d’imputazione più o meno gravi. Fino a oggi, i deputati pentastellati avevano fatto valere l’immunità solo in alcuni casi specifici collegati a reati d’opinione.
Ripercorriamo le vicende processuali più note: nel 2013, la procura di Trani chiede i domiciliari per Antonio Azzollini di Ncd, indagato nell’ambito di una maxi truffa da 150 milioni di euro legata all’opera di costruzione del porto di Molfetta, I 5 stelle votano a favore, ma la richiesta della procura di Trani viene respinta.
Nel 2014, M5s e Pd votano insieme per l’arresto di Galan, ex presidente della regione Veneto e ministro dell’Agricoltura, accusato di corruzione, concussione e riciclaggio per gli appalti del Mose.
L’anno dopo, il sodalizio si rinnova: stavolta il sì è per Francantonio Genovese, accusato di associazione a delinquere e riciclaggio. Nel 2016 i parlamentari del Movimento confermano la linea, approvando l’uso delle intercettazioni tra Silvio Berlusconi e le cosiddette Olgettine.
Il Senato nega: ma c’è il voto segreto e il conseguente scambio di accuse fra Pd e movimento su chi avesse salvato il Cavaliere. Nell’ottobre del 2018 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha dato l’ok alle autorizzazioni a procedere contro Matteo Salvini (ma anche Beppe Grillo) per presunte offese al capo dello Stato.
Associazione a delinquere, concussione, corruzione, riciclaggio, truffa. Insomma, scorrendo i reati per cui il Movimento 5 Stelle ha votato a favore dell’arresto o di altre misure di custodia sembra di scorrere l’elenco delle responsabilità attribuite ai politici della prima Repubblica spazzati via da Tangentopoli e continuate anche per buona parte della seconda.
Niente a che vedere col reato contestato a Salvini. Siamo sicuri, quindi, che schierandosi col ministro dell’Interno i 5 stelle abbiano davvero tradito i propri principi?
Il vicepremier è stato sottoposto alla valutazione della Giunta in quanto ministro della Repubblica e non in quanto semplice parlamentare. Il criterio di valutazione, quindi, non è la presenza o meno del cosiddetto fumus persecutionis, ma se Salvini abbia o meno «agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo», come recita l’articolo 9 della legge costituzionale del 16 gennaio 1989.
Il voto sul ministro dell’Interno, quindi, è completamente diverso dagli altri. Salvini non è stato accusato di associazione a delinquere, concussione, corruzione, riciclaggio, truffa. Ma di aver impedito lo sbarco di migranti, in accordo col suo mandato elettorale.
La posizione dei 5 stelle ha senz’altro una sua logica, ma apre il campo a future interpretazioni dai risvolti imprevedibili: fino a che punto può spingersi un ministro, quali reati può commettere, se lo fa nell’esercizio delle proprie funzioni e per un – presunto – interesse costituzionalmente rilevante?