La battaglia delle band: Maduro sfida Branson, un altro concerto in concomitanza con il «Venezuela live Aid»
È stato uno degli eventi musicali più caratterizzanti del ventesimo secolo. Diverse città e due miliardi e mezzo di spettatori. Sul palco artisti del calibro dei Queen, Phil Collins, Joan Baez, Ozzy Osbourne. Stili, generi e epoche diverse per un’unica causa: raccogliere fondi per combattere la carestia in Etiopia del 1983-1985: era il Live Aid. Quasi trentacinque anni dopo è la volta del Venezuela Live Aid. Richard Branson, il miliardario britannico, si affida alla musica per raccogliere almeno 100 milioni di dollari da destinare alla popolazione venezuelana, afflitta da fame e carestia dopo le recenti vicende politiche e la pesante crisi economica. Venerdì 22 febbraio la cittadina colombiana di Cúcuta, al confine con il Venezuela, sarà illuminata dalle luci dell’evento a cui dovrebbero partecipare 32 cantanti. La città di confine è stata travolta da un esodo di centinaia di migliaia di venezuelani fuggiti dalle condizioni di vita insostenibili. Maduro ha promesso che non permetterà agli Stati Uniti di entrare in Venezuela e ha annunciato sulla tv di Stato lo scorso lunedì che il suo governo importerà 300 tonnellate di aiuti umanitari dalla Russia.
Ma, per alcuni, l’iniziativa di Branson sembra essere un semplice strumento di propaganda americana. Ed è così che arriva la risposta del Presidente Maduro che ha deciso di giocare alla pari del magnate organizzando un altro concerto. Accantonata, al momento, la rivalità con Guaidó, Maduro vuole ora vedersela con Branson e con la sua lista di cantanti blasonati apprezzati in sud America e nel resto del mondo, da Luis Fonsi a Miguel Bosè, sono tanti i gruppi e artisti che hanno risposto all’appello di Branson. Nonostante le critiche, Branson ha dichiarato ad AP NEWS che il suo concerto non è finanziato da nessun governo e che tutti gli artisti si esibiranno senza ricevere un compenso. Un’affermazione che non ha convinto tutti, a partire dal leader dei Pink Floyd Roger Waters.
«Non ha niente a che fare con l’aiuto umanitario – ha detto il chitarrista 75enne – ha a che fare con il fatto che Branson si sia comprato gli Stati Uniti. Lo sforzo fa parte dei tentativi statunitensi di screditare e fornire un’immagine errata del governo socialista e giustificare così un cambio di regime», ha commentato Waters. «Vogliamo veramente che il Venezuela diventi un altro Iraq, o un’altra Siria o un’altra Libia?», ha detto il leader dei Pink Floyd. La battaglia delle band a pochi chilometri da Caracas ha il sapore amaro di un evento che sembra destinato a dividere già in partenza. La battaglia a distanza tra Branson e Waters è il risultato di una spaccatura evidente anche fuori dal palco, di una comunità internazionale che non riesce a trovare la quadra sull’appoggio o meno a Guaidó. Da una parte gli Stati Uniti dall’altra la Russia in un revival della guerra fredda a trent’anni di distanza. Si dice che dove la politica divida la musica unisca, questa volta non sembra essere così.