Stefano Cucchi, un caso che dopo dieci anni non ha ancora giustizia
Sono dieci anni che l'Italia, o una larga parte della sua opinione pubblica, si interroga sulla storia di Stefano Cucchi. Una battaglia giudiziaria che dura da quasi dieci anni, e che vede in prima fila la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, e la sua famiglia, con i genitori Rita e Giovanni. Il geometra romano Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009, a 31 anni, all’interno del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. Due processi, un nuovo filone d'indagine che oggi lavora sui nomi che potrebbero aver contribuito all'inquinamento probatorio, un centinaio di udienze in totale, perizie su perizie, quasi 400 testimoni e innumerevoli consulenti tecnici: è questa la fotografia di un caso che ancora attende verità.
2009, 15 ottobre
Stefano ha 31 anni. Lavora come geometra nello studio del padre Giovanni. Ha avuto problemi con la droga, grossi, con più ricadute. Ma in quel momento, per quello che ne sa la famiglia, sembra esserne uscito. È magro ma in salute: fa anche boxe. Quella sera, intorno alle 23.30, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro lo fermano insieme a un altro uomo al Parco degli Acquedotti, in via Lemonia.
Secondo la ricostruzione, Stefano sta cedendo «a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota». Viene fermato con «20 grammi di hashish, suddivisi in 12 pezzi, tre bustine presumibilmente di cocaina e due pasticche». Una è per l’epilessia, di cui Stefano soffre. Dalla caserma Appia viene portato a casa dei genitori, dove viene perquisita la sua stanza: i carabinieri non trovano nulla. In quel momento, secondo le testimonianze della famiglia, non c'è niente di strano nell'aspetto fisico di Stefano. Che viene portato in caserma e arrestato per detenzione di sostanza stupefacente a fini di spaccio.
Viene decisa la custodia cautelare, ma il geometra non viene fotosegnalato come invece da procedura. Oggi i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco sono accusati di lesioni aggravate («violento pestaggio»). Altri due uomini dell'Arma, Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini, sono sotto processo per falsa testimonianza.
2009, 16 ottobre
Il geometra viene processato per direttissima: parla faticosamente, si confonde. Ha ematomi agli occhi. All'udienza c'è il padre: «Noi ti aiutiamo, ma tu devi andare in comunità», gli dice. «Papà, mi hanno incastrato». In udienza Stefano si dichiara tossicodipendente, colpevole di detenzione per uso personale e «non colpevole per quanto riguarda lo spaccio». Il giudice stabilisce per il 13 novembre una nuova udienza e dispone la custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli.
Nel primo pomeriggio Stefano viene visitato presso l’ambulatorio del Palazzo di Giustizia: «Lesioni in regione palpebrale, alla regione sacrale e agli arti inferiori», si legge sul referto. In serata sta peggio e viene portato al Fatebenefratelli. Sul nuovo referto dell'ospedale si legge: «Lesioni ed ecchimosi al viso e alle gambe, mascella fratturata, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale». Secondo le testimonianze, Stefano torna in carcere perché rifiuta il ricovero.
2009, 17/20 ottobre
La famiglia viene informata dai carabinieri del ricovero d’urgenza del figlio, questa volta all'ospedale Sandro Pertini. È un sabato, i genitori non riescono a ricevere alcuna informazione sul posto: «Questo è un carcere, tornate lunedì in orario di visita e parlerete con i medici». Il lunedì dopo vengono informati che per parlare con i medici serve l'autorizzazione del carcere. «Tornate, perché deve arrivare quest’autorizzazione e non vi preoccupate, il ragazzo è tranquillo», dice una responsabile dell'ospedale a Rita e Gianni. Il giorno dopo la versione cambia: devono essere loro a chiedere l'autorizzazione. Il papà di Stefano la ottiene per il 22 ottobre.
2009, 22 ottobre
Stefano muore alle tre del mattino nel reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini. La famiglia, la madre, lo scopre all'ora di pranzo, quando un agente alla porta di casa le chiede di firmare il foglio per l’autopsia del figlio.
2011, marzo
Comincia il processo di primo grado per la morte di Stefano Cucchi. 13 sono le persone rinviate a giudizio: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria e il direttore dell’ufficio detenuti, Claudio Marchiandi. Quest'ultimo chiede il rito abbreviato e verrà prima condannato a due anni per favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio e poi assolto ad aprile del 2012 in secondo grado.
2013, giugno
Gli agenti della polizia penitenziaria vengono assolti, insieme agli infermieri. Condannati invece i medici del Pertini per omicidio colposo.
2014, ottobre
Nel processo d’appello vengono tutti assolti per insufficienza di prove. Non ci sono abbastanza elementi per ritenere gli imputati colpevoli di un reato, che però c’è stato – è stato picchiato, dichiara il presidente della Corte d’appello di Roma, Luciano Panzani. La famiglia chiede un’inchiesta-bis: ad aprirla poco dopo è il procuratore Giuseppe Pignatone.
2015, gennaio
Nelle motivazioni che vengono depositate della sentenza della Corte d’appello di Roma, i giudici sostengono la possibilità di svolgere nuove indagini «al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse». Perché Stefano Cucchi «è stato picchiato».
2015, dicembre
La Cassazione accoglie il ricorso depositato dalla procura di Roma e dalla famiglia Cucchi a marzo 2015, annulla le assoluzioni dei medici ma conferma quelle dei tre agenti di polizia penitenziaria. La procura di Roma avvia una nuova indagine e viene richiesta un'altra perizia medico legale per capire se Stefano Cucchi sia stato picchiato dai carabinieri. Si riparte.
2016, ottobre
La perizia dei consulenti nominati dalla giudice per le indagini preliminari, Elvira Tamburelli, sostiene che Stefano Cucchi è morto a causa di «un’epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti epilettici».
2017, gennaio/febbraio
La procura di Roma chiede di mandare a processo i tre carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco: devono rispondere di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia. Per altri due carabinieri la procura chiede il rinvio a giudizio per i reati di calunnia e falso: sono Mandolini e Nicolardi.
2018, 11 ottobre
È il primo, vero colpo di scena. Il pm Giovanni Musarò rende nota in aula un'attività integrativa di indagine dopo che uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, in una denuncia ha «chiamato in causa» tutti gli imputati. Dice Musarò: «Il 20 giugno 2018 Tedesco ha presentato una denuncia contro ignoti in cui dice che quando ha saputo della morte di Cucchi ha redatto una notazione di servizio».
In dichiarazioni successive ha poi chiamato «in causa gli altri imputati: Mandolini, da lui informato; D'Alessandro e Di Bernardo, quali autori del pestaggio; Nicolardi quando si è recato in Corte d'Assise, già sapeva tutto». La nota sarebbe stata inviata alla stazione Appia dei carabinieri e sarebbe stata fatta sparire. «Il muro è crollato», dice Ilaria Cucchi.
2018, 22 ottobre
Luciano Soligo, maggiore dei carabinieri e all'epoca dei fatti comandante della compagnia Talenti-Montesacro, è tra gli indagati nella nuova inchiesta del pubblico ministero Giovanni Musarò sui falsi verbali e sui depistaggi legati al violento pestaggio di Stefano Cucchi. L’inchiesta chiama in causa anche il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della Stazione Tor Sapienza, e il carabiniere scelto Francesco Di Sano, per aver modificato il verbale sullo stato di salute di Stefano quando dalla caserma Casilina è stato portato a Tor Sapienza.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano il 3 novembre 2009 riferisce in Senato in merito alla morte di Stefano Cucchi. Ansa/Alessandro Di Meo
2019, 27 febbraio
Depone in aula l'ex comandate provinciale dei carabinieri, il generale Vittorio Tomasone, La sua è una testimonianza difficile. Tra le incongruenze di cui gli ha chiesto conto il pm Giovanni Musarò c'è il fatto che Tomasone conosceva tutti gli elementi contenuti nell'autopsia prima ancora che questa fosse depositata agli atti. Secondo il pm, dall'Arma furono dati elementi falsi per l'intervento dell'allora ministro Angelino Alfano in Parlamento sul caso Cucchi nel novembre 2009.