Keith Flint, Luke Perry e il giorno in cui finirono gli anni ’90
Cinquantadue anni Luke Perry, quarantanove Keith Flint. Ma per chi è cresciuto coi loro poster che ti fissavano dalla parete della cameretta resteranno sempre giovani. Bello, bellissimo, ricco e tenebroso il Dylan di Perry; eccessivo, folle, brutto il frontman dei Prodigy. Verrebbe da pensare a una suddivisione di genere: le ragazze per il belloccio di Hollywood, i ragazzi per il cantante maledetto.
Eppure gli anni ’90 erano così meravigliosamente complicati che poteva succedere anche l’esatto contrario: la ragazzina punk e il ragazzotto liceale che non si perdeva una puntata del telefilm (allora non si chiamavano serie) e sognava gli stessi sospiri che la compagna di classe rivolgeva alla foto appiccicata al diario e ormai sgualcita di Dylan McKay.
Luke Perry, ilDylan di Beverly Hills 90210
Oppure, erano così meravigliosamente complicati gli anni ’90, che potevi essere proprio tu, al pomeriggio Perry e alla sera Flynt. Potevi essere proprio tu, simbolicamente in decapottabile, occhiali da sole, tavola da surf, per le strade della California, e poi a ballare come un forsennato in uno scantinato polveroso una musica che non si capiva bene cosa fosse, un po’ hard-rock, un po’ punk, un po’ techno.
Diciamolo, non c’è stato nulla di più fluid degli anni ’90. Non una fluidità di genere, quella era inimmaginabile allora. Era una fluidità culturale, o forse meglio di costume, dove dentro ci poteva stare di tutto: da Che Guevara fino a Madre Teresa, come qualcuno diceva già allora. Era la Generazione X, la prima senza i grandi ideali, cresciuta con i cartoni animati e i divi delle serie televisive; le prime, le serie, in cui i giovani parlavano ai giovani e affrontavano i loro problemi.
Keith Flint, il frontman dei Prodigy
Nel loro essere così diametralmente opposti, così come nell’aver consumato le loro carriere poco più che per un battito di ciglia, Perry e Flynt rappresentano lo spirito di quel tempo in cui tutto si consumava velocemente, ma ancora con modalità novecentesche, senza il cannibalismo quotidiano della rete e dei social, dove tutto sparisce poco dopo essere apparso lasciando soltanto un’impressione. Un tempo in cui si poteva amare il ricco belloccio e viziato, così come il punk estremo. Sembrano passati secoli a guardarlo da qui, nell’epoca della guerra fra élite e popolo.
Oggi chi c’era, laggiù, negli anni ’90, si sente più vecchio. Oggi è il giorno in cui sentiamo che gli anni ’90 sono definitivamente e irrimediabilmente morti. E che noi siamo sopravvissuti alle icone di quegli anni. E allora lasciamolo quel tempo, rabbioso e sentimentale, lasciamolo al suo destino. Su di lui la storia darà la sua ardua sentenza. A noi piace ricordarlo così, in decapottabile, occhiali da sole, tavola da surf, sulle strade della California e che balla, in una cantina lurida, in mezzo alla polvere.