Crisi di felicità nell’Nba: la solitudine dei numeri uno
Per aumentare gli spettatori dell’Nba, i dirigenti della lega di pallacanestro degli Stati Uniti hanno adottato una strategia social molto aggressiva: solo l’account Instagram ufficiale degli Usa ha ben 35 milioni di follower. Un circolo vizioso che fa crescere il numero di fan, promuove l’immagine dei giocatori e frutta un sacco di soldi al mondo del basket televisivo e delle industrie legate allo sport. Ma c’è un effetto collaterale che i geni del marketing non avevano considerato: la pressione mediatica costante porta i giocatori a essere infelici.
È la solitudine dei numeri uno. È Adam Silver, commissario dell’Nba, a parlare di questo aspetto alla Mit Sloan Sports Analytics Conference, una serie di incontri sul ruolo dei dati e dell’informatica nel mondo dello sport. Un’immagine, quella della star sola e chiusa nel suo mondo, che non siamo abituati a vedere. «Oggi, se gironzolate intorno a una squadra di basket, vedrete tutti i giocatori con le loro cuffie giganti sul capo, con la testa bassa.
Sono isolati e si sentono soli», ha detto alla platea riferendosi alla depressing vibe che percepisce quando visita i campi da basket. Il circo mediatico h24, l’impossibilità di essere assenti dai social media per accordi contrattuali, gli introiti pubblicitari inevitabilmente legati all’immagine e al successo che si ha nel mondo digitale. Senza dimenticare allenamenti, dieta, lavoro tecnico e mentale per fornire la migliore prestazione possibile sul campo. È davvero sostenibile questo livello di ansia protratto per gli anni di carriera sportiva?
C’è chi dice che gli stipendi altissimi e lo stile di vita lussuoso risparmiano i vip dalle preoccupazioni della vita quotidiana. Ma essere milionario non vuol dire essere felice. Proprio i social alimentano il gossip, le fake news anche sulla vita privata: vedersi protagonista di una gif su Instagram o di un meme virale su Facebook ti fa sentire tanto famoso quanto impotente. È un flusso che non si può fermare. La platea di fan virtuali ai quali dover dedicare il proprio tempo toglie forze per coltivare i rapporti nella vita reale.
Nello sport, ma non solo, si avverte sempre più la necessità di “andare in ritiro”. Con la speranza, magari, di riuscire a sintonizzarsi con il rumore dei rimbalzi sul parquet, sentire la gioia quando si fa canestro con una schiacciata Tomahawk, riscoprire la purezza del basket, quello vero e sconosciuto, giocato nella palestra del liceo.