«Dio, patria e famiglia. Che vita di m…..». Critiche a destra e a sinistra per il cartello della Cirinnà
L’8 marzo, le mobilitazioni femministe hanno riempito le piazze delle più grandi città d’Italia e del mondo. Ma gli slogan delle manifestanti non sono piaciuti a tutti. Tra i più contestati il cartello «Dio, patria, Famiglia… che vita di m***a» , lo slogan fascista rivisto – stavolta – in chiave femminista, per rivendicare il diritto della donna a sceglie. E a piacere meno è stato il fatto cha ad impugnare lo striscione ci fosse anche Monica Cirinnà, ex senatrice del PD che dà il nome alla legge del 2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. «Filosofia PD: “Dio, patria, famiglia, che vita di merda”. Contenti loro…», ha scritto il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini sul suo profilo Twitter. Ma non è stato il solo a schierarsi contro la presa di posizione dell’ex-senatrice. Anche Chiara Geloni, ex direttrice della web TV del Partito Democratico YouDem, ha definito «volgare, politicamente rozzo e brutto lo slogan scritto sul cartello».
Così come Carlo Calenda, ex dem, che ha twittato: «Vogliamo combattere il nazionalismo becero? Facciamolo in modo intelligente non cadendo nei luoghi comuni opposti ugualmente superficiali». A spiegare le motivazioni del gesto era stata la stessa Cirinnà, che durante la manifestazione aveva postato in diretta la sua foto con il cartello incriminato. L’ex-senatrice spiegava di abbracciare le battaglie per l’autodeterminazione portate avanti da ogni donna contro progetti, «come il ddl Pillon», che le vorrebbero «angeli del focolare» e «minaccia i diritti conquistate con anni di battaglie». Il ddL Pillon, che prende il nome dal senatore leghista che lo promuove, prevede un cambiamento nelle leggi sulle separazioni, sul divorzio e sull’affido condiviso dei minori. A far arrabbiare le manifestanti sono anche le posizioni antiabortiste del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che negli ultimi mesi ha messo in dubbio la validità della legge 194 sul diritto all’aborto.