Dopo l’8 marzo, perché il Reddito di cittadinanza non è «rosa»
Il reddito di cittadinanza? Familistico, che fa poveri di serie a e poveri di serie b e che non aiuta a combattere il problema della violenza di genere. Il giudizio di Non una di meno e dei movimenti femministi sul provvedimento bandiera del Movimento 5 Stelle approvato dal governo sembra senza appello.
«Abbiamo voluto analizzare questa misura e prendere parola perché nel nostro piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere abbiamo elaborato una precisa proposta di reddito che chiamiamo di autodeterminazione», spiega a Open Marina, attivista di Non una di meno Roma. «Tutto il movimento femminista a livello globale ritiene le questioni economiche legate al lavoro, al reddito, al welfare, decisive nel contrasto alla violenza di genere». Senza una indipendenza economica è difficile uscire dalla violenza, insomma. «E questo ce lo dicono in primo luogo le operatrici dei centri antiviolenza», prosegue Marina.
Il reddito di cittadinanza del governo gialloverde non è femminista?
«No. Non tocca la questione del Gender Pay gap. Anzi. Ed è una misura selettiva e non universale», dice Marina, che si è occupata di analizzarlo e mettere a disposizione il report on line . «Discrimina tra le differenti povertà». Il reddito di cittadinanza si rivolge a una platea di poveri assoluti di 4.6 milioni di persone. «Ma i poveri assoluti nel nostro paese sono 5 milioni e mezzo, e la platea di poveri e povere relativi supera i 9 milioni». Insomma è una misura che «fa poveri e povere di serie a e poveri di serie b». E poi, secondo Non una di meno, «si discrimina ancora una volta in senso razzista: questo in linea con le ultime misure del governo come il dl sicurezza». Possono accedere al Reddito «solo persone con cittadinanza europea o residenti con almeno dieci anni di cui gli ultimi due in maniera continuativa: è una discriminante importante perché all’interno della povertà relativa ci sono moltissimi nuclei famigliari migranti».
Autodeterminazione
È il punto che più sta a cuore al movimento femminista, che oggi, per il terzo anno consecutivo, indice lo sciopero generale dell’8 marzo. «Il calcolo avviene sulla base del nucleo famigliare: il reddito di autodeterminazione che invece rivendichiamo è individuale, soggettivo, non basato sul calcolo del nucleo». I dati dicono che in Italia tre femminicidi su quattro vengono commessi in ambito famigliare. «Proprio la famiglia è il teatro principale della violenza maschile». Per garantire effettivamente un sostegno economico e la possibilità di uscire da relazioni violente «non si può pensare una misura in questi termini». E serve, secondo Nudm, anche al di là dei casi di violenza: «Per noi è piuttosto fondamentale immaginare uno strumento di liberazione e autodeterminazione. Con la possibilità, ad esempio, di rifiutare lavori precari, sottopagati, sfruttati che tanto riguardano il mondo femminile. Le donne, quando non sono disoccupate o inoccupate, spesso e volentieri sono sfruttate, sottopagate, pagate meno, discriminate».
Quello di Non una di meno non è un attacco al solo Reddito di cittadinanza: «Rivendichiamo il reddito di autodeterminazione da tre anni, e nel nostro piano anti-violenza ci eravamo espresse in senso negativo anche contro il Rei», il reddito di inclusione introdotto dal governo Gentiloni che verrà ora sostituito dalla nuova misura dell’esecutivo Lega-M5s. «Anche quella era una misura familistica, non universale e condizionata. L’indipendenza economica è presupposto anche per la prevenzione, per fare in modo che e donne non entrino proprio nella spirale della violenza».
Non una di meno vede nel reddito di cittadinanza «un ulteriore strumento di subordinazione, di sgravio per le imprese. Questo governo, i 5stelle e tutto l’esecutivo con le loro retoriche ricordano il ministro Sacconi, la guerra agli oziosi e al divano. Sono retoriche molto offensive». Perché? «Perché noi siamo quelle e quelli che non smettono mai di lavorare, che passano da un lavoro sottopagato all’altro, che non sanno più qual è la divisione tra tempi di lavoro e di vita, passando da un lavoro sottopagato all’altro». Mentre il cuore di quella che è, dice Marina, «la riforma del lavoro più violenta degli ultimi tempi, il Jobs Act, resta sostanzialmente intatto».