L’ad di Adecco: «Decreto dignità e reddito di cittadinanza? Sono misure inadeguate»
Come sta cambiando il mondo del lavoro, soprattutto per i giovani? Decreto Dignità e reddito di cittadinanza avranno davvero gli effetti positivi sul tasso di occupazione in Italia?L’abbiamo chiesto ad Andrea Malacrida, amministratore delegato di Adecco Italia, la più grande agenzia di somministrazione lavoro con un fatturato oltre 1 miliardo di euro annuo.
Il 14 marzo Adecco e Microsoft hanno lanciato Phyd, una piattaforma che mappa le competenze e l’occupabilità delle persone. L’obiettivo è orientare le potenzialità personali e creare dei percorsi formativi ad hoc per diventare più appetibili nel mondo del lavoro. Il tutto grazie all’intelligenza artificiale.
«Inquadrare l’occupazione giovanile oggi in Italia? Ci sono due vie percorribili per descrivere la situazione attuale», sostiene Malacrida. «La prima è un sentimento di fiducia, nelle università è diffuso un clima di curiosità verso i lavori del futuro e gli studenti sembrano molto interessati a colmare lo skillmismatch(cioèil divario fra esigenze del mercato e formazione professionale di chi cerca lavoro, ndr)per essere più appetibili al mercato del lavoro».
E l’altra strada?
«Purtroppo stiamo riscontrando negli ultimi mesi delle criticità molto forti dovute ai primi effetti dei cambiamenti normativi. Le nuove leggi impattano soprattutto su chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro».
Fa riferimento al decreto Dignità?
«Esattamente. Questo decreto di fatto ha sancito un taglio di possibilità nell’occupare nuova forza lavoro, nuovi candidati per le aziende oltre ai 12 mesi. Nessuno può fare praticamente un contratto superiore a quella durata».
Ma nel decreto si parla di 24 mesi.
«È una fake-news. Per colpa delle causali che entrano in gioco dopo i 12 mesi. Sono delle causali impraticabili e nessuno se le può permettere. Con il decreto dignità sono di fatto tagliati i nuovi accessi al mercato del lavoro. E riguarda soprattutto i giovani».
Come mai?
«Dodici mesi, ahimè, non sempre sono sufficienti per testare e confermare una stabilizzazione a tempo indeterminato in un’azienda. Soprattutto in un momento in cui il mercato rallenta, è iniziata una recessione e ovviamente le imprese hanno più difficoltà a immaginarsi il breve-medio termine di business e hanno più difficoltà a inquadrarsi in una norma che irrigidisce le regole mentre il mercato richiede più flessibilità».
Ma è una sensazione o le agenzie del lavoro hanno potuto testare questo trend?
«Vi do dei dati: il decreto Dignità è stato pubblicato ad agosto 2018, ha avuto un periodo transitorio fino al primo novembre e poi è entrato a tutti gli effetti in vigore. Posso dirvi che noi di Adecco tra settembre e dicembre abbiamo assunto ben 50 mila persone in meno rispetto agli stessi quattro mesi del 2017».
Vede altre criticità nel decreto Dignità?
«Quella dei 12 mesi è la più paradossale e la più forte. L’intento del legislatore, del ministro del Lavoro era quello di ridurre i contratti a tempo determinato. Negli effetti è andato a creare ancor più precarietà. Si è innalzata molto più l’intermittenza dei contratti a tempo determinato rispetto al numero di stabilizzazioni a tempo indeterminato. Altri effetti negativi? Il mercato in un momento di recessione chiede più flessibilità, è naturale. Invece questo decreto spinge nella direzione contraria e fa costare molto di più alle imprese il rinnovo di un tempo determinato.
Crea criticità per ciò che riguarda la precedenza di assunzione dei dipendenti: io impresa posso stabilizzare una persona solo se è stata la prima ad essere assunta con un contratto a tempo determinato, non se è virtuosa, se ha lavorato meglio. In sostanza, si è irrigidita una norma che stava funzionando in Italia e si è tornati indietro a ere ormai dimenticate del mondo del lavoro. Il risultato? Un aumento del tasso di disoccupazione».
Reddito di cittadinanza: servirà, come racconta il Governo, a far rientrare i disoccupati o i neet nel mercato del lavoro?
«No. L’attenzione doveva essere rivolta alle persone recentemente disoccupate o che avevano avuto problemi sul posto di lavoro. Invece il focus del reddito di cittadinanza è una fascia enorme di popolazione, inattiva e di cui una parte non è nemmeno interessata al mercato del lavoro. Non sono io il primo a denunciare le potenziali frodi che si stanno verificando per falsare i requisiti di accesso a questo reddito. Sono preoccupato, questa norma sarà solo in minima, minima parte utile per riportare nel mondo del lavoro alcuni cittadini».
Eppure il fine non è dare un assegno per ridurre la povertà, ma trovare nuovi posti di lavoro per i beneficiari.
«Le politiche attive devono essere funzionali al reinserimento nel mercato del lavoro. Era logico iniziare con contratti brevi, di tre o sei mesi, come si è sempre fatto. I paletti rigidi imposti a chi vuole assumere beneficiari del reddito, delle restrizioni irrealizzabili per chi conosce davvero le realtà occupazionali, rendono ancora più inefficace questa misura».
Vi sentite dei competitor dei navigator?
«A parte le battute, rispondo con una frase semplice: i centri per l’impiego non funzionano, Adecco e solitamente le agenzie del lavoro sì. Ora sono io a fare una domanda: è necessario, oggi, aumentare del 50% la forza lavoro dei centri per l’impiego con 3.000 navigator, o forse sarebbe stato più utile capire, coordinare e istruire l’attuale forza lavoro dei centri per l’impiego? Così sarebbero diventati realmente un punto di riferimento e di orientamento per chi cerca lavoro. Il problema non è quanti dipendenti hanno i centri per l’impiego, ma come lavorano. Oggi, male. Si sarebbe dovuto riconvertire il personale dei centri per far svolgere le mansioni di navigator. Aggiungere persone senza avere la minima consapevolezza di cosa farli fare, onestamente mi sembra una barzelletta».
Il 14 marzo avete lanciato Phyd, una piattaforma digitale nata dalla collaborazione tra Adecco e Microsoft.
«La parola chiave è indice di occupabilità: è un algoritmo che permette, combinando aspirazioni personali, soft skill e hard skill, esperienze formative e lavorative, va a definire il punto di partenza e dove potenzialmente si può arrivare con una serie di attività di aggiornamento, corsi che possono scientificamente aumentare questo indice di occupabilità e aumentare le possibilità di incrociare le qualità che cerca un’azienda. È una piattaforma per colmare quel mismatch tra skill e richiesta del mercato».