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Mare Jonio, la storia del giovane migrante rispedito quattro volte in Libia

21 Marzo 2019 - 17:22 Felice Florio
«Mi chiamo Bakary, ho 25 anni e vengo dal Gambia. Sono stato torturato e venduto come schiavo in Libia. La mia famiglia ha pagato i trafficanti per la traversata. Quattro volte sono stato riportato nei centri di detenzione libici. Solo al quinto tentativo la nave italiana è riuscita a salvarmi»

Bakary ha solo 25 anni, ma i suoi occhi mostrano la storia della violenza disumana. È arrivato in Italia a bordo della Mare Jonio. Ha superato il suo quinto tentativo di traversata: dopo i primi quattro era tornato a subire le torture nei campi libici. Nonostante tutto, nonostante la paura, i suoi occhi non riescono a nascondere la determinazione: solo lui sa da dove è scappato, solo lui sa qual è il vero valore della speranza.

«Mi chiamo Bakary e vengo dal Gambia. Prima di partire facevo l’autista di autobus», racconta a Open, attraverso la voce di Giulia Sezzi, Guest Coordinator di Mediterranea Saving Humans. Il suo viaggio è iniziato quasi cinque anni fa. «In un anno ho attraversato Senegal, Burkina, Algeria e poi sono arrivato in Libia. Ho passato quattro anni della mia vita in Libia, venivo trasportato da un campo di detenzione all’altro».

Racconta con lucidità quello che ha passato: «Mi vendevano come schiavo. Passavo da una prigione all’altra dove mi tenevano ai lavori forzati», dice Bakary. E prosegue: «Eravamo in tanti, non ci davano mai acqua e cibo. Quando io e i miei compagni siamo stati male, febbre e solo Dio sa che altro, i libici ci davano alcune medicine che venivano dall’Europa. Ma senza acqua e cibo non potevamo prenderle. Ho visto, ricordo bene i loro volti, 50 persone morire di fame davanti ai miei occhi».

E sulle traversate del Mediterraneo: «Ho provato cinque volte a lasciare la Libia e solo l’ultima volta ci sono riuscito e ci tengo a raccontare ai giornalisti quello che succede. C’è complicità tra la guardia costiera libica e i trafficanti di essere umani». Come può esserne certo?

«Tra le varie cose, ce n’è una che fa capire esattamente cosa succede sulle coste della Libia. E a me è successa quattro volte, non una, quattro volte. La mia famiglia in Gambia pagava i trafficanti nei centri affinché mi rilasciassero e mi facessero partire su uno dei loro gommoni. Quando la guardia costiera ci intercettava, ci riportava esattamente nello stesso campo dal quale ero partito e tornavo prigioniero degli stessi trafficanti. Era un meccanismo quasi automatico».

Sul suo corpo, i segni di quelle violenze. «La quinta volta ho incontrato la nave Mare Jonio». Bakary non parla esplicitamente di aver temuto per la sua vita, ma «Le torture che ho subito, i lavori forzati senza mangiare mai niente, la vera fame e la vera sete, solo Dio sa cosa ho passato», racconta, «mi hanno venduto più volte come schiavo per i lavori forzati e, se protestavo, mi picchiavano e mi torturavano».

«Il mio più grande sogno si era trasformato nel voler fuggire dal terrore libico, vivere come si vive in Libia non è qualcosa di umano», racconta. Adesso Bakary sembra più sereno: «Questa tappa mi rende molto più tranquillo. E qui mi apro anche ai giornalisti perché gli italiani sappiano che quello che succede in Libia non è umano. Deve essere divulgato. So che non sarà facile nemmeno qui in Italia, la procedura per i documenti. Il mio viaggio continua. Ho dei famigliari in Germania, vorrei raggiungerli. E spero che un giorno la mia compagna in Gambia possa arrivare in Europa e potremo vivere insieme una vita normale».

Bakary ha affermato più volte, con consapevolezza, di volerci raccontare la sua storia. Abbiamo preferito utilizzare un nome di fantasia e non mostreremo il suo volto per proteggere lui e la sua famiglia da ogni tipo di ritorsione.

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