Poche borse di studio, stipendi bassi e sfruttamento. Così l’Italia fa scappare i giovani medici – L’intervista
«Non prendiamoci in giro, i medici giovani ci sono eccome. Ma al momento sono bloccati in un surreale imbuto formativo che è frutto di politiche scellerate che denunciamo da almeno 10 anni».
Così esordisce Stefano Guicciardi, presidente di FederSpecializzandi, in rappresentanza di tutti quei giovani medici a cui in Italia è precluso l’accesso alla professione per via di limiti insiti nel sistema.
La replica è indirizzata alla soluzione tampone, adottata dal Molise e da altre Regioni, di richiamare in corsia medici in pensione per colmare la carenza di nuovo personale. «I nodi stanno venendo al pettine ora – afferma Guicciardi – ma sono le conseguenze di qualcosa che nasce molto molto prima».
A cosa si riferisce?
«Il rapporto tra medici neolaureati e borse di specializzazione è totalmente squilibrato. Dunque, non vengono fornite le risorse adeguate per formare i nuovi medici. Per esempio, l’anno scorso, al concorso di specializzazione si sono presentati quasi 16.000 candidati a fronte di 6900 posti».
Sta qui il cortocircuito nell’accesso alla professione?
«Sì, il cortocircuito principale è di tipo quantitativo. Banalmente, non vengono garantite le risorse per ogni medico neo abilitato. Quindi, in un caso su due, un medico che si è appena laureato resta fuori perché non ha accesso alla specializzazione. Questa è una cosa davvero surreale perché abbiamo bisogno di medici specialisti e la programmazione andrebbe fatta in modo che ci sia una giusta corrispondenza tra medici laureati e medici che entrano nel sistema formativo specialistico. Si tenga presente che, ad oggi, non si può accedere al servizio sanitario nazionale come dirigente se non hai la specializzazione».
Quali sono le soluzioni?
«Non ci sono tante scappatoie, ogni soluzione tampone che leggiamo in questo momento sui giornali, ogni trovata fantasiosa come quella di chiamare medici stranieri o pensionati, non è che un palliativo veramente minimo che non può reggersi senza un piano straordinario di aumento delle borse di specializzazione che in tutti questi anni non sono state garantite».
Si parla spesso di concorsi che vanno deserti.
«Bisogna chiedersi perché i medici non partecipano ai concorsi. È vero che alcuni di questi vanno deserti, ma bisogna farsi delle domande: che cosa viene loro offerto? Facciamo l’esempio di aree critiche come quelle dei pronto soccorso e delle chirurgie. Si corrono alti rischi, ci sono turni massacranti, responsabilità elevatissime, si va incontro a contenziosi medico legali. Per cui, si tratta di posti che già di per sé sono indirizzati a una nicchia di professionisti.
Inoltre, se l’ospedale che bandisce il concorso è – mettiamo il caso – sotto organico perché in parallelo, come spesso capita in questi anni, ha avuto un blocco del turnover e quindi non ci sono state assunzioni sistematiche di personale, questo significa che il carico di lavoro per una persona che entra nel sistema è molto alto perché deve farsi carico del lavoro di altre persone che non ci sono. E magari si tratta anche un ospedale periferico, lontano dal proprio stile di vita. Dunque, è normale che si tentino tutte le altre strade disponibili e si consideri questa come ultima spiaggia».
Dunque, non ci sono buone prospettive per un giovane medico italiano?
«Sicuramente sono situazioni che non vengono mai raccontate e questo ci fa molto arrabbiare. Si racconta spesso solo la storia del giovane bamboccione che non vuole partecipare al concorso, o si semplifica dicendo che i giovani non ci sono. Al contrario: i giovani ci sono, sono bloccati nell’imbuto della formazione e al contempo vengono loro offerti contratti veramente poco appetibili. Si chiede ai nuovi professionisti di colmare le lacune del deficit di organico, si scarica sui nuovi medici un’alta mole di lavoro che probabilmente andrebbe ripartita tra più persone. Quindi, chiediamoci perché i concorsi vanno deserti».
Sono condizioni che aprono la strada al fenomeno della fuga dei giovani medici all’estero?
«Sulla fuga dei nuovi medici all’estero, un altro dato che non viene mai considerato è che – oltre ad aumentare il numero di borse di specializzazione, condizione prioritaria – negli altri Paesi ci sono contratti qualitativamente migliori rispetto al contesto italiano. I dati Ocse 2018, ci dicono che in Italia un medico percepisce un salario medio di circa 71.715 euro lordi all’anno, in Germania si parla di 133.000 e in Olanda di 154.000. Condizioni sicuramente più appetibili».
Oltre all’assenza di borse c’è anche un discorso di trattamento economico.
«Certo, è normale. Già i giovani medici italiani si vedono sbarrare la strada dall’imbuto formativo visto che non si riesce ad accedere al concorso perché le borse non ci sono. Poi, se si guarda ai contratti degli altri Paesi, è chiaro che si abbia voglia di spostarsi in altre realtà come la Svizzera o la Germania. I contratti sono qualitativamente di gran lunga migliori e anche sul fronte delle condizioni di lavoro la situazione è più appetibile. Per cui, in un mercato del lavoro sempre più aperto, cosa ci aspettiamo? Che i medici rimangano in Italia a lavorare il doppio e prendere la metà?».
Quindi dà ragione al commissario della Sanità molisana quando dice che il problema sta in un sistema di programmazione sbagliato da vent’anni?
«Sì, esatto, è vero, e queste sono le conseguenze. Non c’è da fare il nome di un colpevole. Si è trattato della miopia della politica, di chi ha governato il sistema negli ultimi 15 anni. Noi denunciamo la carenza delle borse dal 2004, quando all’epoca nemmeno c’erano i contratti di specializzazione, e quei pochi che c’erano non erano assolutamente sufficienti. Adesso la situazione si è fatta grave sempre più grave ed ecco che si ricorre alla pratica di chiamare i medici stranieri o pensionati».
Cosa pensa a riguardo? Sembra non ci siano alternative per il momento.
«È una situazione surreale, una pratica che si commenta da sola. La colpa però è dell’intero sistema, non della Regione di turno. Adesso non ci sono davvero più scuse. Noi pretendiamo risposta strutturale del sistema».
Quali sono, a suo avviso, le mosse che andrebbero messe in pratica?
«Due sono le cose da fare in questo momento. In primis, aumentare con un piano eccezionale le borse di specializzazione per risolvere, almeno nei prossimi cinque anni, il cosiddetto imbuto formativo. Dunque, è necessario investire, immettere nuove risorse nel percorso di formazione specialistica. In parallelo, occorre migliorare le condizioni di lavoro per gli specialisti. Ci sono i margini per intervenire, per rendere più appetibili i contratti. Altrimenti come possiamo pretendere che le persone partecipino a concorsi che prevedono condizioni di lavoro critiche?».