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Lavorare nella giungla dei beni culturali: io, archeologo, inquadrato come muratore

Lavorare nei beni culturali in Italia è un inferno: esistono delle leggi senza decreti attuativi e delle tutele che vengono sistematicamente ignorate. Open ha raccolto le testimonianze di alcuni professionisti presenti all'assemblea di "Mi riconosci? sono un professionista dei beni culturali"

Sono le 16:00 di venerdì 5 aprile, e Francesco sta per salire sul Flixbus che lo porterà a Torino per l’assemblea del movimento “Mi riconosci? sono un professionista dei beni culturali“, che ci sarà il giorno dopo. Francescoè un nome di fantasia: «Non posso espormi troppo – dice a Open – perché potrei rimetterci il posto di lavoro».

Francesco è un archeologo, ha più di 30 anni, eda un anno e mezzo lavora in un museo della Toscana. Le professioni nell’ambito dell’archeologia, però, non sono ancora riconosciute dalla legge. Per questo, è inquadrato con una dicitura che non rispecchia la sua reale professione: sul contratto c’è scritto «operaio specializzato nel contesto dell’edilizia».

Archeologi “muratori” e collaboratori freelance

«L’archeologo è tutt’altro che un operaio», dice. Ma non sembra troppo stupito dell’espediente contrattuale. «La questione è molto semplice: la legge non ha ancora regolato questo tipo di professione. Quindi noi dobbiamo orientarci in una marea di contrattini che sono tutto fuorché convenienti».

Michela invece – altro nome di fantasia – il contratto proprio non ce l’ha. È laureata in Storia e dal 2013 lavora in un museo di Torino. Organizza attività didattiche per bambini e ragazzi: «Io e gli altri colleghi siamo inquadrati come collaboratori occasionali generici», spiega a Open. «Ritenuta d’acconto al 15% e stipendio sotto i 5.000 euro l’anno».

Lavorare nella giungla dei beni culturali: io, archeologo, inquadrato come muratore foto 1

ANSA | Museo egizio di Torino

Oltre alla dicitura che non riconosce una realtà lavorativa, Michela e Francesco fanno notare che la maggior parte dei beniculturalisti è costretta ad aprirsi una partita iva e lavorare come freelance. «Ma noi non siamo mica notai che possiamo stare con le spalle coperte lavorando autonomamente», dice Michela.

I dati di “Mi Riconosci?”: 70 tipologie di contrattiper 500 lavoratori

Leonardo è uno degli organizzatori della Terza Assemblea Nazionale di “Mi Riconosci? Sono un Professionista dei Beni Culturali”, che si è tenuta al caffé Basaglia di Torino il 7 aprile. Per prepararsi alla giornata, i fondatori del movimento avevano preparato un questionario per capire quale contratto avessero in media i professionisti del settore.

«Quello che ne è uscito fuori ha dell’assurdo», dice a Open. Mentre parla al telefono gli sfugge qualche risata nervosa: «Su 500 intervistati sono uscite fuori una settantina di diciture diverse». Servizio civile, borsa di ricerca, tirocinio, stagione estiva, apprendistato, contratto a progetto, stage retribuito, stage non retribuito, stage di 6 mesi, prestazione occasionale. «Qualcuno ha messo addirittura lavoro non retribuito», nota con un po’ d’ironia.

«Il risultato è preliminare perché dobbiamo ancora mettere insieme tutto», aggiunge. «Ma la cosa più incredibile è che avevamo fallito addirittura noi a formulare il ventaglio di contratti. Un risultato totalmente imprevisto».

Lavorare nella giungla dei beni culturali: io, archeologo, inquadrato come muratore foto 2

ANSA | Terme di Caracalla, Roma

Anche Daniela, che di professione fa la guida, è tra le organizzatrici dell’evento. A Open spiega che è difficile reperire i numeri esatti su contratti e lavoratori assunti, ma dice che uno degli obbiettivi dell’Assemblea è proprio trovare questi dati quantitativi e qualitativi. «La situazione è talmente complessa…», dice un po’ sconfortata. «Alcuni di noi sono pagati a ore».

Daniela è tornata in Molise dopo aver lavorato per anni a Milano, dove le era stato «imposto» il lavoro autonomo. «Mi pagavano solo le ore della visita e tutto il lavoro di preparazione che c’era dietro veniva praticamente ignorato. ‘E che ‘mo vuoi essere pagata pure per quello?’, mi dicevano».

Le leggi che mancano e le tutele ignorate

Il primo documento di “Mi Riconosci?” si chiama “Verso il riconoscimento“. Un riconoscimento necessario per poter essere assunti con contratti specifici dai quali diventi sempre più difficile prescindere.

Dal 2014 è in vigore una legge, la 110, che sancisce il riconoscimento presso il ministero dei Beni culturali degli elenchi di altre 7 professioni: archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte.

Dopo l’emanazione della legge, l’allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, Dario Franceschini,bandì un concorso per 500 funzionari. Ma oltre a non esaurire le professioni in circolo (e le opportunità per i professionisti stessi), Daniela spiega che i decreti attuativi non sono ancora stati emanati. Il che non permette ancora di smuovere la situazione dei contratti che non corrispondono all’impiego svolto.

Lavorare nella giungla dei beni culturali: io, archeologo, inquadrato come muratore foto 3

ANSA | Pompei, archeologi riportano alla luce un affresco con Narciso. Febbraio 2019

«Dovrebbero essere istituiti dei bandi a breve… speriamo», dice Francesco, che però non pensa che le cose cambieranno davvero. «Il problema è che una persona che è altamente formata la devi pagare di più. Quindi anche con i decreti attuativi non è detto che escano dei bandi», aggiunge.

A sostegno delle paure di Francesco, Leonardo spiega che una legge che tutela molti dei lavoratori culturali esiste già, ma viene sistematicamente ignorata. «C’è il contratto di Federculture. Un bel contratto: molte tutele, retribuzione adeguata. Ma è più facile assumere in un museo con un contratto Multiservizi e inquadrare la guida come una persona che si occupa delle pulizie».

«Io spero sinceramente di lavorare con un contratto subordinato, di lavorare nel pubblico e per il pubblico», chiosa Francesco. «È quello per cui ho studiato. Non voglio essere a partita iva, non voglio fare il libero professionista».

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