Esclusiva: venti di guerra in Libia. I migranti dai centri di detenzione: «Sentiamo cadere le bombe» – Il video
«Abbiamo paura. Non possiamo scappare e anche se cerchiamo di farlo rischiamo di essere rapiti, per cui preferiamo stare in questa prigione disgustosa. È un momento terribile. La guerra ci fa paura. Sentiamo le bombe cadere».
Il messaggio ottenuto da Open è di un ragazzo eritreo rinchiuso in un centro di detenzione libico dove i tanti migranti, segregati in condizioni pietose, stanno vivendo una situazione ancor più drammatica, con l’inizio della resa dei conti tra l’esercito di Khalifa Haftar e le forze governative di Farez al-Serraj.
Il messaggio è la prova che i detenuti sono al corrente del cambiamento nella situazione politica del Paese e che ne temono le conseguenze. Non è difficile immaginare cosa possa succedere a circa 5,700 uomini, donne e bambini rinchiusi nei centri di detenzione libici, nel momento in cui dovessero venire meno quelle poche regole che attualmente scandiscono la loro esistenza.
Fotografia scattata in un centro di detenzione libico a Zintan, a 160 km da Tripoli
Per il momento gli aiuti non arrivano. Negli ultimi giorni Human Rights Watch ha ricordato che entrambi gli schieramenti hanno cattivi precedenti per quanto riguarda le violenze inflitte sulla popolazione civile durante episodi di conflitto armato. Ma per il momento non c’è una missione umanitaria all’orizzonte.
Fotografia scattata in un centro di detenzione libico a Zintan, a 160 km da Tripoli
L’unico piano di evacuazione – sacrosanto – è stato a beneficio dei dipendenti dell’Eni e dell’ambasciata italiana. Nel frattempo pare che in alcuni centri di detenzione nel bel mezzo del conflitto – come a Qaser bin Ghasir e Gharyan – i migranti si trovino bloccati senza viveri e senza elettricità.
Il conflitto
Il conflitto vede contrapposti il Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj a Tripoli, che gode dell’appoggio delle Nazioni Unite, compresa l’Italia i cui interessi economici sono prevalentemente concentrati nella zona nord-occidentale del Paese, e le forze del Generale Khalifa Haftar, appoggiate dagli Emirati Arabi Uniti, che invece controlla una parte sostanziale all’Est del Paese, comprese le città di Bengasi e Tobruk.
Per il momento la tregua umanitaria dall’Onu non è stata rispettata. Sarebbero circa una cinquantina per il momento le morti da una parte dall’altra. Nel frattempo il conflitto è arrivato fino alla periferia di Tripoli. Nella città le scuole hanno annunciato che non apriranno questa settimana e i residenti sono corsi nei supermercati per fare scorte di cibo.
La città di Tripoli ha già subito degli attacchi missilistici da parte delle forze di Haftar. Le milizie dell’autoproclamato Liyan national army (Lna) hanno lanciato dei missili Grad da Garian, una città a circa 80 chilometri da Tripoli. Una donna sarebbe rimasta uccisa in un attacco la notte tra il 6 e il 7 aprile.
I lager libici
Come raccontato da Open in precedenza i centri di detenzione in Libia sono almeno 26. Per l’Unione europea andrebbero chiusi ma la guardia costiera libica, finanziata anche con il contributo dell’Ue, riporta lì i migranti che tentano di fuggire via mare. Tra questi anche Triq al Sikka a Tripoli dove circa un mese fa avevamo raccontato delle violenze subite da alcuni migranti che avevano osato manifestare pacificamente.
Fotografia scattata in un centro di detenzione libico a Zintan, a 160 km da Tripoli
Luoghi di tortura, ma anche di oppressione sistematica, viste le difficili condizioni di vita. Il video e le immagini che pubblichiamo provengono dai centri di Zintan, Ain Zara e Tajoura nelle vicinanze di Tripoli. Documentano ancora una volta la mancanza di servizi di igiene, di uno spazio sufficiente per poter ospitare dignitosamente i migranti ammassati.
Altre voci invece ci giungono proprio dalla capitale della Libia attualmente sotto assedio. «Siamo circa 130 profughi e viviamo in un hangar. Alcuni di noi hanno passato più di due anni nei centri di detenzione. Fa molto freddo e il cibo scarseggia. I libici non vogliono condividere il cibo con noi perché siamo cristiani».