L’Italia richiama i medici in pensione, ma non fa lavorare quelli stranieri: «Colpa delle leggi sulla cittadinanza»
Entro il 2025, nel servizio sanitario nazionale ci sarà una carenza di circa 16.700 medici. Un po’ per i pensionamenti anticipati previsti da Quota 100, che potrebbero portare all’uscita di 52.500 dottori; un po’ perché lo Stato finanzia poche borse di specializzazione rispetto al numero dei neolaureati, ritardando il loro ingresso nel mondo del lavoro (e negli ospedali).
Per colmare questa lacuna si potrebbe fare affidamento sui medici di origine straniera, che però non possono partecipare ai concorsi pubblici a causa delle leggi sulla cittadinanza. Il 2025 potrebbe essere l’annus horribilis della sanità pubblica: la gobba pensionistica raggiungerà il suo apice e, senza manovre per correggere l’andamento entrate-uscite dalla professione, molti ospedali resteranno senza chirurghi, anestesisti, ortopedici e ginecologi.
«Eppure i medici, nel nostro paese, ci sono: sono più di diecimila i giovani laureati e poi imprigionati nell’imbuto formativo, perché non vengono finanziate sufficienti borse per specializzarli. E, senza correttivi, diventeranno 19 mila già nel 2021, quando si laureeranno gli studenti immatricolati in sovrannumero per ricorso al Tar», racconta a Open il dott. Foad Aodi, fondatore e presidente dell’Amsi, l’Associazione medici di orgine straniera in Italia.
«A loro si aggiungono i 19 mila medici, per lo più specialisti, di origine straniera, che lavorano con contratti a termine e che, in mancanza della cittadinanza, non possono accedere ai concorsi pubblici. Ma anche loro se ne stanno andando dall’Italia, attratti da offerte di lavoro più convenienti e più stabili in altri Paesi, tra i quali quelli d’origine», spiega Aodi.
«Il paradosso è che i medici stranieri arrivati negli anni scorsi in Italia, oggi cominciano ad abbandonarla: registriamo un aumento del 20% dei medici intenzionati a tornare a casa. Mentre è aumentata addirittura del 35% la percentuale di quelli che preferiscono, in ogni caso, esercitare in un paese diverso dall’Italia».
Foad Aodi, fondatore e presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia
Dottor Aodi, come mai ha deciso di fondare l’Amsi?
«L’abbiamo fondata nel 2000 io e altri medici delle più diverse nazionalità perché all’epoca c’erano molte problematiche nella categoria legate agli stranieri, ad esempio non era facile per noi iscriverci all’ordine. Dopo un anno e mezzo sono stato eletto consigliere dell’Ordine dei medici di Roma e, dall’interno, sono riuscito a far parlare di tematiche molto importanti come la sanità a livello internazionale e la cooperazione tra Paesi per aiutare quelli meno sviluppati».
Ma la questione forse più importante per la categoria non è stata ancora risolta: parlo della cittadinanza italiana obbligatoria per la partecipazione ai concorsi pubblici.
«È l’ultima delle nostre sfide per abbattere in Italia le differenze tra medici di Serie A e medici di serie B. Ci sono 19 mila medici iscritti all’ordine, che pagano le tasse e rispettano tutti i doveri della professione e delle leggi italiane. Eppure non possono ancora sostenere i concorsi pubblici e il corso di studi in medicina generale. Ovvio che la cittadinanza è un tema importante, ma bisognerebbe abbreviare il tempo necessario per ottenerla: noi proponiamo che dopo 5 anni di lavoro documentato e di residenza fissa, venga permesso l’accesso ai concorsi con l’obbligo di portare a termine quanto prima l’iter per ottenere la cittadinanza italiana».
Una misura che potrebbe risolvere l’annoso problema della carenza di medici nel Servizio sanitario nazionale.
«Certo. considerate che siamo sommersi di richieste di medici che dall’Asia e dal Medio Oriente chiedono le certificazioni per venire a esercitare qui in Italia. In Europa, pensate, ci sono mezzo milione di medici di origine straniera e molti Paesi li integrano nel sistema nazionale per merito, non per adempimenti burocratici lunghi e sconfortanti com’è concepita la cittadinanza oggi».
Foad Aodi, fondatore e presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia
E cosa succede, dopo il diploma, a un medico straniero che ha studiato e si è specializzato in Italia?
«Potrei raccontarvi tante storie: molti si presentano ai concorsi e poi scoprono di non poterli sostenere. Altri vengono assunti in modo alternativo per pochi mesi ma smettono di lavorare quando devono per forza fare il concorso pubblico. Prima di pensare a chissà quali misure per risolvere il problema della carenza di medici, io dico che bisogna integrare nel mondo ospedaliero prima gli italiani che restano bloccati nel limbo tra laurea e scuole di specializzazione, ma anche i medici di origine straniera che sono perfettamente integrati nel nostro Paese. Sono 19 mila, l’85% di loro, non avendo la cittadinanza, lavora nelle cliniche private perché è escluso a priori dai concorsi pubblici».
Quali sono, secondo lei, tre soluzioni per arginare l’emergenza delle corsie degli ospedali senza medici?
«Innanzitutto, con una corretta programmazione, formando un numero adeguato di specialisti nelle specialità per le quali sarà più grave la carenza. Per prima cosa, dunque, dobbiamo specializzare i medici che escono dalle nostre università: ci associamo all’appello della Fnomceo per avere già da quest’anno almeno 10 mila borse, in modo da formare gran parte dei medici oggi prigionieri dell’imbuto formativo.
In secondo luogo, velocizzando il riconoscimento dei titoli per i medici stranieri già specializzati che vogliono lavorare in Italia. Poi, migliorando le condizioni contrattuali, in maniera da far rimanere in Italia i medici, italiani e stranieri, che già lavorano sul territorio, e da far tornare coloro che sono emigrati all’estero. Infine, permettendo l’accesso ai concorsi anche ai medici stranieri che già lavorano da tempo in Italia, a condizione che, una volta superato il concorso, ottengano la cittadinanza».
Qual è la sua storia e come mai ha deciso di spendersi così tanto per la causa, avendo lei già ottenuto la cittadinanza italiana?
«Io sono un palestinese, arabo-israeliano, nato vicino a Tel-Aviv. Sono venuto qua nell’83 perché in Israele c’era il numero chiuso per l’accesso alla facoltà di medicina. Ho fatto un corso di lingua a Siena, mi sono integrato, e poi ho preso la laurea in medicina. Dopodiché ho cominciato a lavorare, specializzandomi nell’ambito della fisiatria e dell’ortopedia.
Oggi dirigo quattro grandi centri di riabilitazione a Roma e una clinica polispecialistica. Lavorano con me 150 medici e fisioterapisti: cerco di aiutare i giovani, dando loro una chance lavorativa basandomi solo sul merito. In Italia mi sono fatto conoscere per i trattamenti delle patologie vertebrali e dell’ernia al disco. Ho istituito un protocollo, conosciuto come protocollo-Aodi, per evitare l’intervento di alcune ernie: adesso il 90% dei pazienti non si opera più».
Avete provato a portare la questione al ministero?
«Sì, ne ho parlato con il ministro Giulia Grillo e il sottosegretario alla Salute, Armando Bartolazzi: mi hanno ascoltato con molta attenzione e si sono mostrati sensibili alle tematiche. Ma l’incontro verteva principalmente su un altro tema, quello della circoncisione. Abbiamo presentato delle statistiche che dimostrano che, delle 11 mila circoncisioni annue in Italia, il 35% avviene in modo clandestino. Sono morti dei bambini per questo.
Abbiammo fatto richiesta di una legge nazionale che introduca nel Servizio sanitario nazionale la circoncisione preventiva. Scolleghiamola dalla questione religiosa, tema oggi più divisivo che mai. La comunità di religione ebraica ha un accordo con lo stato italiano, nel loro caso è ancora più vincolante perché per la dottrina è obbligatoria farla sui bambini entro 8 giorni dalla nascita. Qui stiamo parlando di una misura che tuteli il diritto di tutti».