«Sono arrivato in Italia senza un soldo, oggi sono un ingegnere»: la favola di Sajjad
Sajjad Ahmed ha 28 anni ed è originario del Pakistan. È arrivato in Italia dalla Libia quando era adolescente con un obiettivo in testa: voleva diventare ingegnere. Il suo desiderio si è avverato lunedì 15 aprile all’Università del Salento dove si è laureato in Ingegneria industriale con una tesi dal titolo Experimental Evaluation Method of the Cyclic Curve.
Sajjad racconta al telefono di essere arrivato in Italia senza un soldo, ma con un sogno, quello di fare l’ingegnere. «Quando ero piccolo guardavo gli ingegneri lavorare nel deserto e mi dicevo che avrei voluto essere uno di loro. Non avrei potuto studiare altro nella vita».
I complimenti sono arrivati anche dal rettore dell’ateneo salentino, Vincenzo Zara che ha detto: «La cultura è sempre una potente leva di riscatto personale e sociale», e ha concluso, «al prossimo neo dottore in Ingegneria i nostri migliori auguri di un futuro che possa corrispondere ai sogni tanto a lungo coltivati».
Sajjad, rifaresti tutto daccapo? Non hai mai pensato di gettare la spugna, neanche per un momento?
«No mai. Nessun attimo di cedimento, è stato molto difficile in alcune fasi della vita, ma rifarei tutto altre mille volte».
Quando sei arrivato in Italia?
«Sono arrivato il 2 ottobre 2007 dalla Libia e sono sbarcato a Lampedusa: avevo 17 anni. Avevo abbandonato la scuola a 13 anni per lavorare e dare una mano ai miei; lavoravo per alcune aziende petrolifere. Poi sono passato a essere un operaio dell’Università di Misurata. Il problema è che mi pagavano poco o per nulla. Sono venuto in Italia con la speranza di poter iniziare una vita migliore. E sono arrivato senza soldi. A Lecce sono stato accolto dai frati cappuccini: ho iniziato a frequentare corsi di alfabetizzazione, tornitura, pirografia e fotografia».
Oltre a corsi di formazione, lavoravi?
«Alternavo i corsi al lavoro di benzinaio – lavoro che svolgo tutt’ora. Ho iniziato quando ho compiuto 18 anni: all’inizio ero un addetto alla pulizia del piazzale, poi piano piano sono salito di livello».
Hai fatto altri lavori?
«Sono stato mediatore culturale, traduttore presso il Tribunale di Lecce; ma anche volontario per diverse associazioni che si occupano dell’accoglienza dei migranti. L’anno scorso ho lavorato per l’ufficio tecnico dell’Università del Salento. In passato mi sono anche dato alla vita di campagna, facendo il contadino e andando a raccogliere le olive e i pomodori».
Hai detto che quando sei sbarcato in Italia, arrivavi dalla Libia: eppure sei pakistano.
«Mio padre lavorava in Libia e io sono andato lì per dare una mano e portare qualcosa in più a casa. Siamo una famiglia numerosa e io sono l’unico figlio maschio».
Sei arrivato qui da solo?
«Solo, senza nessuno. Prima che partissi da Tripoli avevo una grande paura di non farcela. Sono stato sul punto di annullare i piani».
Quindi: ora sei laureato in ingegneria, hai già trovato lavoro nel tuo settore?
«Non ancora, spero di riuscirci in breve tempo».
Hai dimostrato che ci si può perfettamente integrare e avere successo: hai mai subìto episodi di razzismo?
«Mai, anzi, i miei colleghi di corso mi hanno sempre aiutato. Ad esempio è capitato molte volte che mi passassero gli appunti e mi aiutassero con gli esami. Lavorando e studiando non era facile essere sempre in pari».
Tesi su?
«La costruzione di alcune macchine».
Come vivi le politiche sull’immigrazione, qui in Italia?
«Per il mio modesto parere, si sbaglia a fare di tutta l’erba un fascio. È naturale che tra tutti coloro che arrivano qui – gente che scappa dalle guerre e dalla fame- ci sarà sempre qualche mela marcia. Ma non ha senso rendere tutte le mele marce. Un po’ come tra gli Italiani: pensate di essere tutta brava gente? È necessario lavorare per l’integrazione, ed è giusto fare il muso duro con chi non rispetta le regole».
Come ha reagito la tua famiglia a questo traguardo universitario?
«Sono felici, ma la verità è che tra tutti i festeggiamenti non ho ancora avuto modo di sentirli. Tra l’altro fino a poco tempo fa nessuno sapeva che andavo all’Università?»
In che senso, perché?
«Perché volevo vivere tranquillo. Ci sono stati miei connazionali che in passato mi dicevano “Ma dove vuoi andare, sei figlio di un operaio. Che ti sei messo in testa?”. Per cui per lungo tempo ho evitato di parlarne, anche se dentro di me covavo questo sogno e ho lottato per raggiungerlo».
Tornerai prima o poi nella tua terra o pensi di rimanere qui?
«Non so se tornerò nella mia terra e in Italia, lo ammetto, vivo fin troppo bene. Gli obiettivi che devo raggiungere potrebbero portarmi ad avere legami con tutto il mondo. Di certo abbandonare l’Italia sarà l’ultima cosa che farò».