La “Rotta contraria” degli italiani che vanno a lavorare nei call center in Albania – L’intervista
«La Rotta contraria è quella seguita dai giovani italiani in cerca di lavoro e di un tenore di vita dignitoso in Albania». Comincia così il racconto di Stefano Grossi, scrittore e regista del docufilm Rotta contrariache fotografa un percorso di migrazione al rovescio, rispetto allo storytelling italiano al quale siamo abituati in questo periodo storico.
Un fenomeno, quello della migrazione in Albania, di cui si discute ancora poco nella sfera pubblica. Figlio di un’Italia che troppo spesso non è in grado di offrire opportunità professionali ai suoi giovani, da ormai diverse generazioni, in barba all’articolo 1 della Costituzione.
E così Tirana ha finito con l’essere nota come capitale dei call center che raccolgono centinaia e centinaia di operatori italiani o aspiranti team leader, tra gli impieghi in assoluto più diffusi in questo momento. Stefano Grossi ha raccolto le loro testimonianze e ha raccontato a Open la realtà con cui è entrato in contatto.
Stefano,che cosa parliamo quando parliamo di Rotta contraria?
«Parliamo dei giovani italiani che emigrano in Albania facendo a ritroso la rotta che trent’anni fa gli albanesi hanno intrapreso verso l’Italia, con la prima grande ondata migratoria del 1991, proseguita negli anni Novanta e successivamente. Ma è anche, a mio parere, la rotta contraria di un modello di sviluppo che, con la premessa – e la pretesa – di una crescita infinita, sta al contrario esaurendo le risorse del Pianeta; un modello di sviluppo malato e pericoloso che l’Albania, da quando ha abbracciato – almeno formalmente – il regime democratico, insegue in modo un po’ confuso e sgangherato, adottando il peggio del nostro stile di vita».
Chi sono i protagonisti di queste storie di migrazione al rovescio?
«Il film ne racconta un piccolo gruppo, a suo modo rappresentativo, giovani italiani ealbanesi accomunati dallo stesso lavoro e dalla stessa precarietà, e forse anche dalle stesse aspettative, ma con un’importante differenza: gli albanesi, nella loro “navigazione” (continuando la metafora marittima), sognano ancora di trovare qualcosa oltre l’orizzonte, gli italiani invece sanno che quel qualcosa, ammesso che sia mai esistito, è già passato».
Come è entrato in contatto con questo fenomeno e dove ha trovato le testimonianze dei protagonisti?
«In realtà il punto di partenza per me è stata la riflessione sul modello di lavoro del call center, l’immagine stessa della spersonalizzazione (che una volta avremmo chiamato alienazione) e del precariato lavorativo ed emotivo.
Un modello devastante che però nella sua declinazione “albanese” costituisce paradossalmente l’unica concreta realtà lavorativa per decine di migliaia di giovani, migliorando di fatto il loro tenore di vita e quello delle loro famiglie (contrariamente a quanto accade in Italia), sia pure in modo temporaneo.
Il lavoro di ricerca di questi ragazzi italiani ed albanesi, impiegati a vario titolo nei call center di Tirana, è stato ottimamente svolto nell’arco dell’intera estate del 2017 dal mio aiuto regista albanese Indrit Metiku, che ha avuto la sensibilità e la capacità di selezionare una dozzina di giovani (poi ridotti a otto) e convincerli a partecipare al film, che abbiamo poi girato nel corso della primavera successiva, nel 2018».
Tirana è ormai nota come la capitale dei call center, può essere un modello di vita professionale a lungo termine, a suo avviso?
«Assolutamente no, e questo lo sostiene lo stesso Agron Shehaj, presidente dell’Ids, la più importante catena di call center albanesi. Il call center è già qualcosa di superato nella folle corsa verso un mondo ridotto a puro scambio permanente di merci. Il futuro è nella diffusione sempre più capillare e pervasiva del web marketing e dei media integrati, possibile grazie al controllo sempre più preciso nella profilazione dei clienti».
Come giudica questa “soluzione” che giovani e meno giovani italiani stanno sperimentando da qualche anno?
«A me personalmente sembra istinto di sopravvivenza e insieme disperazione, in parti uguali. È come quando un esercito in ritirata si trincera sempre un po’ più indietro, per guadagnare tempo e riorganizzare le proprie forze. Ma il problema è che le forze non ci sono più. Riprendo il concetto espresso poco fa: la Rotta contraria, dal mio punto di vista, è anche e soprattutto quella di un Paese (l’Italia) che giorno dopo giorno si sta avvicinando pericolosamente all’Albania (e non viceversa), malgrado abbia una storia ben più lunga di consuetudine democratica e un livello di benessere materiale ancora molto superiore.
Quando si ha a che fare con un livello di corruzione molto esteso e addirittura predominante e sistematico in alcune zone del Paese, quando il livello della classe politica e dirigente è disastroso e degradante come quello italiano di oggi, quando la cultura viene sistematicamente ostacolata e vilipesa, quando l’apparato dei media premia sistematicamente la mediocrità e il disvalore, quando fasce sempre più ampie di cittadinanza diventano pura massa di manovra eterodiretta, quando intere generazioni non vedono un futuro e intuiscono che la loro condizione non potrà che peggiorare e soprattutto quando una parte consistente del Paese perde la memoria della propria storia, allora è l’inizio della fine, è una deriva che non può che finire sugli scogli (mi permetto di insistere nella metafora marittima)».
«L’Albania è un po’ una caricatura dell’Occidente»sostieneFatos Lubonja, uno tra ipiù importanti intellettuali albanesi indipendenti. Che cosa intende?
«È quello che dicevo prima: c’è un modello di sviluppo che sta facendo collassare le democrazie occidentali ed europee e che, secondo Fatos, l’Albania sta cercando di scimmiottare, nella speranza di potersi sedere a sua volta alla tavola dell’Europa. Il problema è il prezzo che dovrà pagare.
Da questo punto di vista, il problema dei rifiuti tossici, degli inceneritori e dell’importazione dell’immondizia degli altri paesi europei è centrale nella discussione politica albanese e costituisce, io credo, il momento più avanzato di presa di coscienza da parte di una fetta non minoritaria di opinione pubblica albanese, quella cioè che s’identifica nell’ottimo lavoro di resistenza civile svolto in questi ultimi anni dall’Akip (l’Alleanza contro l’importazione dei rifiuti), di cui si parla nell’ultima parte del film, mostrando tutto l’orrore della discarica di Sharre, alla periferia di Tirana».
L’Albania è una terra che offre più opportunità dell’Italia in questo momento?
«Dipende dai punti di vista».
I giovani che ha incontrato cosa le hanno raccontato?
«Che partire è sempre difficile, ma che rimanere può esserlo anche di più. È qualcosa che bisognerebbe che considerassero attentamente tutti quelli che pensano che i migranti cambiano Paese per capriccio o per insoddisfazione. È un sapere, questo, io credo, autenticamente universale, ma che per essere percepito necessita di intelligenza umana ancora prima che politica, merce molto rara oggi, specialmente dalle nostre parti».
Sentono la mancanza dell’Italia?
«Moltissimo. Oppure per nulla. Anche in questo caso, dipende dai punti di vista».
Dove verrà presentato in anteprima il film?
«RAl Bif&st di Bari, che a me e alla Own Air (che con Rai Cinema ha prodotto il film, con il sostegno del Mibact) è sembrato davvero il luogo migliore da cui Rotta contrariapossa cominciare la sua navigazione. Lì dove tutto è cominciato, per l’appunto, nel 1991, e da dove ancora oggi continuano a partire e ad arrivare, in un senso e nell’altro, i traghetti che attraversano il mare Adriatico».
Il trailer di Rotta contraria
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