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Baby boss, il neuropsichiatra: «Le tribù devono appartenere al passato. Serve uno Stato forte» – L’intervista

08 Maggio 2019 - 12:20 Angela Gennaro
L'ingaggio «avviene in giovane età, quasi fosse una sorta di apprendistato», spiega Enrico Nonnis a Open. «Sono ragazzi che fanno poi una scalata e diventano quelli che arrivano a usare le armi»

Napoli tra Gomorra e spari in pieno giorno. E un destino criminale che condivide con tante altre città d’Italia ma che qui, a volte, si mostra in tutta la sua schiacciante forza. Napoli che resiste, in un contesto storico in cui l’umanità sembra a un bivio, in cui i casi di cronaca di Manduria e di Viterbo rilanciano il dibattito sulla sicurezza, ma soprattutto sulla prevenzione. E sul ruolo di Stato e istituzioni, troppo spesso – se non assenti – non sufficientemente efficaci.

A fare il punto, con un convegno a fine maggio proprio a Napoli dal titolo Il minore nella criminalità organizzata: tra vittima e persecutore, saranno magistrati, psicologi, psichiatri, sociologi. «Casualmente avevamo deciso, da tempo, di organizzarlo proprio nel capoluogo partenopeo», racconta Enrico Nonnis, neuropsichiatra infantile e direttore dell’Unità Complessa di Salute mentale dell’età evolutiva della Asl Roma 3.

L’ispirazione dell’appuntamento, organizzato da Psichiatria Democratica, è la Paranza dei bambini di Roberto Saviano. «Ci sono tre cardini, nel convegno come nell’approccio a queste tematiche», spiega Nonnis a Open. «Il primo è quello della conoscenza del fenomeno, coinvolgendo magistrati e dirigenti della giustizia. Il secondo è quello della prevenzione e del piano clinico: vogliamo esaminare il fenomeno della criminalità minorile, soprattutto nei territori dove esiste la criminalità organizzata». Non solo Campania ma anche Calabria, Sicilia, in parte la Puglia. «Territori in cui verosimilmente ci sono anche aspetti antropologici da esaminare. E poi c’è il terzo cardine: quali soluzioni?»

Enrico Nonnis, qual è la situazione oggi, da un punto di vista psicologico, di quelli che i giornali chiamano i baby boss? 

«La giustizia minorile nel nostro paese è assai avanzata: in termini di leggi, organizzazione e procedure. Si tende molto alla prevenzione e alla possibilità di rimettere in carreggiata quei ragazzi che hanno evidentemente delle “suggestioni” rispetto a un comportamento delinquenziale. Traiettorie che possono essere corrette con la prevenzione e intervenendo con tutte le misure possibili: non solo quelle del carcere, ma anche quella della messa alla prova o del ricovero in comunità, socioeducative o terapeutiche. Quella che vogliamo esplorare è l’idea che dove c’è la criminalità organizzata ci sono anche aspetti antropologici, quasi “tribali”. Li chiamerei “sintonici” con la situazione di certe famiglie».

Cosa significa?

«È quando essere delinquenti fa parte del “gioco”: non sto facendo qualcosa di sbagliato, ma qualcosa in linea con il sentire della mia famiglia in senso allargato. E questo accade nella fase di formazione della personalità del ragazzo o della ragazza – che poi diventerà, di fronte alle leggi dello Stato, delinquente: come se non ci fosse un’etica più alta. L’ingaggio avviene in giovane età, quasi fosse una sorta di apprendistato e di manovalanza futura.

Sono ragazzi che fanno poi una scalata nella carriera e diventano quelli che non si limitano al micro-spaccio, ma arrivano a usare le armi. Ci sono devianze minorili legate ad aspetti della personalità, al discontrollo degli impulsi, alla non maturazione, alla non consapevolezza di quello che si sta facendo. Ma nel caso della criminalità organizzata c’è un aspetto “sintonico”, cioè in sintonia con quello che è il sentire della famiglia. Sono cose che fanno parte dell’omertà e dell’humus in cui ci si ritrova».

Quali sono le soluzioni possibili? Su cosa lavora la comunità scientifica? 

«Ci sono le associazioni, come Libera e altre, che fanno un’opera capillare sul territorio, trasmettendo valori diversi a quello della famiglia. Clinicamente parlando, ci sono misure messe in atto dal giudice che riguardano proprio il collocamento non agli arresti ma in comunità, per quelle situazioni in cui si ravvisano rischi psicopatologici, cioè costruzioni di personalità fragili dove il discontrollo degli impulsi ha a che fare con un disturbo.

In quel caso la comunità, che non è solo socioeducativa, ma anche terapeutica, interviene sullo psicologico e sul terapeutico. È necessario differenziare, e nel caso di un ragazzo nella fase di costruzione della personalità è sempre complicato. Ma le comunità servono a questo: anche al passaggio diagnostico, che si intreccia poi all’intervento terapeutico».

Quanto è difficile curare quelli che vengono definiti baby boss?

«Non è impossibile. Nel nostro territorio, nella nostra cultura manca una diversificazione degli interventi comunitari. Dovremmo avere tanti tipi di comunità terapeutiche che possano rispondere ai vari bisogni, che sono molto differenziati, soprattutto nelle situazioni in cui c’è un disturbo della condotta che può sfociare nell’antisocialità. Un elemento che ancora manca, in parte, nella costruzione dei servizi: ma ci stiamo adoperando. Per la criminalità organizzata bisogna forse fare un discorso a parte, perché esiste questa “sintonia”, non c’è la percezione di qualcosa di sbagliato.

In Calabria, per esempio, c’è una sperimentazione della procura dei minori di riduzione della potestà genitoriale nelle famiglie di ‘ndrangheta, dove l’aspetto tribale antropologico è molto forte. Si lavora per proporre un sistema educativo alternativo, più allargato, che non sia solo quello della famiglia. In Campania esistono molte associazioni sul territorio: a Secondigliano e in altri territori difficili del napoletano. Non abbiamo la soluzione in tasca: si sperimenta volta per volta, in contesti così complessi che non basta semplicemente un intervento clinico o di polizia e magistratura.

A volte parliamo di preadolescenti di 10-11 anni. Un certo tipo di cultura è difficile da sradicare, forse per mancanza dello Stato e di qualcosa di competitivo rispetto della sicurezza che può dare l’appartenenza tribale. Ecco: per certi versi siamo un paese tribale. Invece dobbiamo essere una democrazia matura dove le tribù appartengono al passato, soprattutto se c’è uno Stato forte e presente. Con la scuola, con i servizi, con il lavoro».

C’è chi dice no, come il figlio del boss Piccirillo

«E infatti questo dipende molto da quanto uno possa sentirsi sicuro dell’appartenenza non solo a una famiglia ma anche a una società più allargata rappresentata dallo Stato, dal Comune, dalle istituzioni. Da una comunità più ampia che ha un’etica più profonda e di spessore. Se io mi sento sicuro nel lavoro, nella casa, nei rapporti con gli altri, mi tranquillizzo e cresco.

Soprattutto in età evolutiva, quando ho bisogno di riferimenti e modelli.  Si crea una sorta di competizione, e lì sceglierò magari la prospettiva che mi dà più spessore in termini di appartenenza. È un lavoro molto lungo, non possiamo inventarcelo dall’oggi al domani. Certosino, quasi minuto per minuto. Non siamo solo noi, non è solo la leva clinica: è soprattutto quella educativa e quindi istituzionale. Queste sono le strade che vanno rafforzate».

In copertina Ansa | Una foto di scena tratta dal film di Claudio Giovannesi la Paranza dei Bambini, tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano.

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