«Game of Thrones» Grazie, di tutto
Doveva essere la fine del 2012, circa. L’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi era caduto sotto i colpi dello spread. Instagram stava cominciando a diffondersi, ma solo fra qualche visionario. La nazionale di calcio conquistava un onorevole secondo posto agli Europei, dopo aver perso in finale contro le inarrestabili Furie Rosse della Spagna.
Era anche il periodo in cui le serie televisive cominciavano a prendere piede nella cultura di massa. C’era Breaking Bad, The Walking Dead e Shameless. E poi c’era una serie fantasy, tratta da alcuni romanzi ben conosciuti tra gli appassionati del genere: Game of Thrones. Una serie iniziata nel 2011 che si stava diffondendo con il passaparola, episodio dopo episodio.
Guardare film su internet era tutta un’altra cosa rispetto a ora. Netflix sarebbe arrivato in Italia solo nell’ottobre 2015, e con lui tutti i servizi di streaming. Non prendiamoci in giro. A parte i fortunati che potevano contare sulle connessioni via cavo, la maggior parte di noi passava le sere a cancellare le pubblicità pop up aperte dai siti pirata o controllare i download su Torrent.
I Sette Regni, dove abbiamo vissuto
E così, in quel modo illegale e un po’ romantico, molti hanno cominciato ad appassionarsi alle storie di quei personaggi, ambientate in un mondo lontano, nel tempo e nello spazio. Un mondo medioevale, dove ancora rimane qualche traccia di magia. Un mondo spietato, dove non ci si può fidare di nessuno.
Un mondo che si è chiuso la notte tra il 19 e il 20 maggio quando Hbo ha proiettato The Iron Throne, l’ultimo episodio dell’ottava stagione. La puntata ha indispettito molti fan, ma è una sindrome ben conosciuta in Italia. Se gioca la nazionale di calcio, sono tutti Ct, se va in onda la serie tv più seguita al mondo, sono tutti sceneggiatori.
La serie che ha cambiato le serie
Oltre cento milioni di dollari investiti per le sei puntate dell’ultima stagione. Settimane di riprese notturne tra le lande islandesi solo per girare una battaglia. Una lingua creata ad hoc, location in tutto il mondo e centinaia di comparse. Tutto giustificato da un pubblico sempre più numeroso, forse inquantificabile.
Solo gli accessi registrati da Hbo, la rete via cavo americana che trasmette la serie, sono arrivati a 18,4 milioni per un singolo episodio. Ma è difficile calcolare quanti l’abbiano vista da altri network o da piattaforme pirata. Game of Thrones è stata un fenomeno collettivo, tanto che negli Stati Uniti centinaia di bambini sono stati chiamati con i nomi dei suoi personaggi.
Il finale, troppo atteso e già immaginato
Un fenomeno che, appunto, è finito. Certo, ci saranno degli spin off, c’è ancora il documentario in uscita, ma la trama principale si è chiusa qui. E con lei una stagione della vita di ciascuno di noi.
Magari negli ultimi otto anni avete visto tutte le puntate con le stesse persone a fianco, magari no. Magari sul quel divano davanti alle immagini che provenivano da Westeros sono passati amori, amici, gioie, tradimenti e rimpianti. Magari questi episodi hanno segnato il periodo migliore della vostra vita, magari il peggiore.
Ed è per questo carico di emozioni, di aspettative e di vita che la fine non poteva accontentare tutti. Quante teorie abbiamo immaginato? Quanti finali perfetti erano già disegnati nelle nostre menti? Qualsiasi cosa ci avrebbe deluso. Jon Snow sul trono sarebbe stato banale. Daenerys, dopo il quinto episodio, troppo forzato. Tyrion eccessivamente buonista. Sansa poco credibile. Arya immatura.
E forse, come spesso succede, è meglio che la fine non l’abbiano decisa i fan con un sondaggio o con un’altra petizione su change.org. È meglio così, perché, nell’ultimo episodio, Game of Thrones ha dimostrato di saper ancora fare quello che gli è riuscito meglio in questi anni: sorprenderci.
Ha ribaltato le aspettative, è stato spietato con i suoi protagonisti, ha tracciato linee narrative che mai sarebbero state pensate. Una su tutte Sansa Regina del Nord. Perché alla fine i Westeros sono questo. Perché il momento in cui abbiamo capito che Game of Thrones non fosse una serie come le altre è stato alla fine della prima stagione, quando Ned Stark è stato decapitato. Lui, uno dei protagonisti più saggi e forti. Abbandonato dalla penna dell’autore senza battere ciglio.
Jon e Daenerys, travolti dai loro destini
Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco: è questo il nome della saga ufficiale scritta da Martin. Ed è questo il nome del libro che Samwell Tarly presenta a Tyrion alla fine dell’ultimo episodio, forse in una scena un po’ banalotta. E mai come nelle ultime stagioni è sembrato chiaro chi fosse il ghiaccio e chi il fuoco. La neve, le terre oltre alla Barriera, e gli Estranei sono la storia di Jon Snow, i deserti, i draghi, le fiamme, quella di Daenerys. Un uomo e una donna travolti, in modo diverso, dal loro destino.
Jon Snow, convinto di essere un bastardo e convinto di recitare un ruolo marginale nella storia di Westeros, si ritrova a essere prima Lord Comandante dei Guardiani della Notte, poi Re del Nord e poi erede legittimo al Trono di Spade. Jon non ha un obiettivo. Non vuole potere o responsabilità. Semplicemente sono gli eventi che affronta che lo portano a diventare un eroe, a volte a ragione, altre meno.
Completamente diversa la storia di Dany. Lei sì che ha un obiettivo chiaro fin da subito. Lei sì che si sente investita da un destino enorme. Un’ambizione tanto grande da accecarla, da non farle accettare che esiste un limite, che non può cambiare, davvero, tutto il mondo. E che non tutto è lecito per raggiungere un obiettivo.
I loro destini in questo episodio si sono scontrati. Jon accetta di fermare la folle ascesa di Daenerys, e lo fa pagandolo con l’esilio dai Westeros. Entrambi escono di scena da questi nuovi Sette Regni. E tornano nelle terre dei loro giorni migliori: gli Essos per Daenerys e la vasta regione oltre la barriera per Jon Snow.
Lunga vita al re, e ai Sei Regni
E mentre la trama dei personaggi principali si esaurisce, quella di chi ha sempre lavorato in secondo piano si chiude perfettamente. Sansa Stark è quella che è cambiata di più. Odiosa e detestabile nelle prime stagioni, è stata tradita da quel mondo fatato, fatto da principi e principesse, che amava tanto. E dopo il dolore, dopo che il suo animo è stato spezzato più e più volte, ha smesso di essere «un piccolo uccellino» ed è diventata una donna, anzi, una regina.
Drogon che infiamma il Trono di Spade segna la fine di un’era in cui tutto quello che ritenevamo importante non esiste più. Non esiste più Approdo del Re, non esiste più una casa che domina sulle altre con i suoi eredi, non esiste più una guerra da combattere. Il clima alla fine della puntata è simile a quello della Contea quando Frodo torna dal suo viaggio verso il Monte Fato.
C’è serenità nell’aria. Si scherza e si pensa al futuro. Eppure le avventure vissute in tutti questi anni, il dolore, la soddisfazione, le sconfitte e le vittorie, sono rimaste dentro tutti i personaggi. Cambiandoli. E hanno cambiato anche noi. Sono diventate tutte storie da raccontare quando ricorderemo delle sere passate ad aspettare l’inizio di un nuovo episodio e le pause pranzo a litigare con i colleghi sulla casata che sarebbe dovuta salire sul Trono di Spade.
Ed è per questo che ora non conta sezionare la puntata, sviluppare trame e sottotrame, criticare l’evoluzione dei personaggi fino al più piccolo dettaglio. Per oggi basta un grazie, di tutto.
In copertina: Hbo | Ned Stark nel primo episodio della serie