Cosa non dicono le sezioni unite della Cassazione sulla cannabis?
Ci sono ancora alcuni punti di domanda sulla decisione della corte di Cassazione di vietare la commercializzazione di cannabis sativa che potrebbe avere conseguenze drastiche sia per i produttori che per i commercianti del prodotto.
Il primo riguarda le diverse interpretazioni di quelle che sono le regole relative alla vendita della cannabis. Se la legge del 2 dicembre 2016, n. 242, a sostegno delle coltivazione e della filiera agroalimentare della pianta, permette la sua coltivazione ai fini di produrre alimenti e cosmetici, non è vero che permette esplicitamente la commercializzazione della cosiddetta cannabis legale, come sostengono alcune voci del settore.
Almeno così ha stabilito la Cassazione, mettendo ordine tra due interpretazioni contrastanti, una restrittiva, l’altra no. Nell’interpretazione perdente è considerato naturale o inevitabile che i prodotti della filiera agroindustriale della canapa, che la legge espressamente mira a promuovere, siano commercializzati: in altre parole, la legge lo consentirebbe implicitamente. Secondo questa logica sarebbero leciti quindi tutti i prodotti.
Scartata la seconda interpretazione, niente commercializzazione automatica di tutti i prodotti derivanti dalla coltivazione, quindi niente cannabis legale. Ma rimane un altro dubbio perché in fondo alla massima divulgata dalla Corte suprema si legge che la vendita sarebbe bandita «salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».
Siamo sicuri che i prodotti della cannabis con un limite inferiore allo 0,6% di Thc possano essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del D.p.r. n. 309 del 1990? Perché se così non fosse, allora dovrebbe venire meno il divieto sulla commercializzazione della cannabis sativa.
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