L’ultima maglia rosa di Pantani: 20 anni fa, il test antidoping che ha distrutto il Pirata (ma non il mito)
All’alba bussarono alla porta della stanza di hotel per i controlli anti-doping. Tutti sapevano che sarebbero arrivati, mancava poco alla fine del Giro e per regolamento andava eseguito l’ultimo dei tre test obbligatori. Marco Pantani doveva essersi svegliato con il ricordo della volata del giorno prima. Il Giro d’Italia del 1999 era già suo, Gran Sasso, Oropa, Pampeago, le gare in quota le aveva vinte con margine e il gran finale si sarebbe disputato sulle sue strade preferite. Ma la maglia rosa volle onorare anche la tappa di Madonna di Campiglio, staccati gli altri a più di un minuto. Mentre gli prelevavano il sangue, il Pirata non poteva sapere che non avrebbe più indossato la maglia rosa.
L’inizio della fine
Pantani, all’arrivo della tappa, non aveva nemmeno alzato le braccia al cielo: era il più forte, lui lo sapeva, e lo sapevano tutti. La sera del 4 giugno i giornalisti ridevano in sala stampa, «ma chi può fermare Marco?», e non riuscivano a individuare nessun altro ciclista al suo livello. L’anno prima lo “scalatore” aveva vinto la doppietta Giro-Tour. Al risveglio, il 5 giugno 1999, i medici o, come li chiamano nell’ambiente, i “vampiri”, bussano alla porta. Fanno il prelievo e portano via la provetta. Tutto è tranquillo. Il limite dell’ematocrito non doveva superare i 50%. Il sangue di Pantani, la sera prima, aveva valore 48%. Il pomeriggio del 5 giugno, ancora 48%.
I risultati che hanno cambiato e distrutto la vita di Marco Pantani arrivano alle 10:10 di vent’anni fa. I medici dell’Uci resero pubblici i valori di concentrazione di globuli rossi: 52%. Oltre il margine di tolleranza, fissato all’1%. «Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile». Il Pirata è incredulo, anzi, arrabbiato: con un pugno rompe il vetro di una finestra dell’albergo. Con la mano fasciata, circondato dai giornalisti, i carabinieri lo scortano lontano dal circo del Giro. «Credo che c’è qualcosa di strano», dice ai cronisti. Fine della corsa.
Il ritiro
Pantani fu sospeso per soli 15 giorni. Ma preferì non partecipare al successivo Tour de France. «Io sto vincendo questo tour, ma se ci fosse Pantani lo vincerebbe lui», disse Lance Amstrong durante la corsa francese di quell’anno. Tra le perplessità e i sospetti su quel controllo, Pantani scelse di chiudersi in casa: «Sapevamo che era tutto a posto, sapevamo che sarebbero arrivati i controlli. Non mi hanno dato la possibilità di ripetere il test. È inspiegabile». Si allontanò dal ciclismo e si rifugiò nella droga. Prova a ritornare ai massimi livelli gli anni successivi. Ma non ottenendo i risultati sperati, soprattutto a causa di una situazione psicologica instabile, decide di ritirarsi definitivamente dalle corse nel 2003.
L’ultima scalata
«Un giorno, al Tour, gli avevo chiesto: “Perché vai così forte in salita?”. E lui ci aveva pensato un attimo e aveva risposto, questo non riesco a dimenticarlo: “Per abbreviare la mia agonia”», raccontò il giornalista Gianni Mura. Sul fatto che Pantani si fosse dopato o meno restano dei dubbi che probabilmente non si chiariranno mai. Ma è certo che il Pirata, ferito nel suo orgoglio e privato della sua vita, la bicicletta, ebbe seri problemi con la cocaina. Anche sulla morte del campione ci sono delle ombre che escluderebbero il suicidio. Ma la versione ufficiale è che in un umile residence di Rimini, la sera del 14 febbraio 2004, Marco Pantani fu trovato morto per le conseguenze di un’overdose di cocaina e psicofarmaci.
Il ricordo dell’eroe
Il giorno dopo il decesso, il Milan, squadra di cui Marco Pantani era tifossissimo, gioca con il lutto al braccio. Da quell’anno, ininterrottamente, l’organizzazione del Giro d’Italia assegna a una salita il nome di “Montagna Pantani”. Il Pirata condivide questo onore soltanto con Fausto Coppi, altra leggenda del ciclismo a cui è stata dedicata la “Cima Coppi”. Musicisti, registi, artisti: in tanti sono stati ispirati dalle imprese di Pantani e hanno dedicato le proprie opere al ciclista, che oggi riposa nel cimitero di Cesenatico. «Corri più veloce del vento, il vento non ti prenderà mai, corri ancora adesso lo sento, sta soffiando sopra gli anni tuoi. Dammi la mano, fammi sognare, dimmi se ancora avrai al traguardo ad aspettarti, qualcuno oppure no».
«Finché non avrà giustizia»
Parenti, tifosi e amici non si danno pace nella ricerca della verità. La mamma di Pantani, la signora Tonina, continua la sua battaglia: «Io gli ho fatto una promessa, che devo riuscire a dargli giustizia. Avrò pace quando vedrò in faccia chi ha distrutto mio figlio». E nel 2016 ha reso pubblica una lettera che aveva lasciato il Pirata: «A Campiglio la Madonna non c’era quel giorno e ho pagato un prezzo che il mio ben che duro carattere non sopporta. Una macchia indelebile non troppo sincera. Sono con la coscienza, per ciò che è Campiglio, pulito. E ciò fa male, ancora di più. Sono tornato a casa e tutto ciò che era possibile è accaduto».
L’ombra della Camorra
Lo stesso anno della pubblicazione della lettera, il 2016, la Procura di Forlì nel corso delle indagini ha confermato che «un clan camorristico minacciò un medico per costringerlo ad alterare il test e far risultare Pantani fuori norma», quel giorno, a Madonna di Campiglio. Il sangue del ciclista potrebbe essere stato desplamato, aumentando il valore dell’ematocrito e provocando la diminuzione di piastrine, effettivamente riscontrata nella provetta. Il giudice dell’udienza preliminare dovette però procedere all’archiviazione per la sopravvenuta prescrizione dei reati. Intercettazioni di ambienti camorristici vicini al mondo delle scommesse clandestine e le dichiarazioni in carcere di Renato Vallanzasca, avvalgono la tesi dell’intervento della Camorra. Vallanzasca sostenne che, il 4 giugno 1999, in carcere, uno sconosciuto l’abbia invitato a scommettere sulla sconfitta di Pantani a quel Giro: «’O pelato non arriva a Milano – e il giorno dopo gli avrebbe detto – Visto? Il pelatino è stato fatto fuori».
«L’abbraccio di Marco con il traguardo»
«Dalle Alpi francesi solcate da una tempesta, si leva solenne, al di là delle nuvole della fantasia, un dio dello sport: si chiama Marco, il nome forte di un evangelista. È andato lassù, in una bugiarda giornata di luglio, a predicare sulle montagne il mistero eterno dell’uomo ai confini della più spietata fatica – scriveva il giornalista Candido Cannavò -. Eccolo, con i rivoli di forza vitale che gli restano addosso, nel suo ultimo gemito soave. È finita. Lo straordinario miscuglio di gioia e sofferenza che agita la sua anima produce una sorta di trasfigurazione nel volto di Pantani. C’è un senso profondamente drammatico nel suo trionfo. Ne ho viste tante in quasi mezzo secolo di sport, ma l’abbraccio di Marco con quel traguardo che gli sta davanti e che gli cambia la maglia e la vita, è un’immagine baciata dall’eternità».
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