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«Prostituirsi mai atto libero»: cosa dice la sentenza della Consulta

07 Giugno 2019 - 16:35 Felice Florio
Dal processo Tarantini alla Consulta, il giudizio atteso sulla legge Merlin

«La scelta di vendere sesso è quasi sempre determinata da fattori che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo». Parole forti quelle della Corte Costituzionale interpellata dalla Corte d’Appello di Bari nel corso del processo a Giampaolo Tarantini e Massimiliano Verdoscia. Il caso riguarda il giro di escort che i due avrebbero presentato tra il 2008 e il 2008 all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Le posizioni della Corte Costituzionale sono vicine ai principi della legge Merlin del 1958 che introdusse i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. «In questa materia – sottolinea la sentenza n.141 del 2019 – lo stesso confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono è spesso labile»

Nella sentenza depositata il 7 giugno si legge che «la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede».

«A ciò si affiancano, peraltro, anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono – in ipotesi – per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole – c’è scritto nella sentenza, il cui relatore è Franco Modugno – Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo)».

La Corte d’Appello pugliese aveva messo in discussione la legittimità di alcune norme sulla materia, dato il cambiamento del contesto sociale dall’approvazione della legge Merlin a oggi. I giudici di Bari hanno ravvisato nell’art.2 della Costituzione la libertà di autodeterminazione dell’individuo, anche dal punto di si vista sessuale.

Tale autodeterminazione, secondo la Corte d’Appello, potrebbe essere lesa da un ordinamento che prevede la punibilità di soggetti terzi che si limitano a fare da ponte tra “escort” e clienti, azioni oggi inquadrabili nel reato di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. I giudici della Corte d’Appello di Bari lo affermavano in un’ordinanza del 6 febbraio 2018.

Ma la Corte Costituzionale ha dichiarato «non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge Merlin», sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della Costituzione. «Il concetto di «dignità» va inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore – si legge nella sentenza del 7 luglio -. È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente».

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