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Madrid processa Barcellona: ora tocca ai giudici, i leader «ribelli» rischiano fino a 25 anni di carcere

13 Giugno 2019 - 07:56 OPEN
Gli imputati, in Tribunale per l'organizzazione del referendum indipendentista, rischiano fino a 25 anni di carcere

«Un finale senza pentimento», titola il giornale spagnolo El Paìs. Dopo 4 mesi di udienze e più di 500 testimoni coinvolti, si è concluso alle 16 del 12 giugno il processo ai dodici leader indipendentisti catalani accusati, tra le altre cose, di ribellione. Nonostante il rischio di incorrere nella pena di 25 anni di reclusione, Barcellona è uscita di scena senza nessun ripensamento. Davanti al Tribunale Supremo spagnolo, che si pronuncerà per la sentenza in autunno, i catalani hanno difeso fino in fondo la legittimità delle loro azioni. «Fu un atto di protesta e di disobbedienza, non fu una giornata di violenza», ha commentato Jordi Sànchez, che all’epoca del referendum per l’indipendenza, nel 2017, era presidente dell’Assemblea Nacional Catalana. «Non me ne pento. Tutto quello che ho fatto lo farei di nuovo. Accetto i miei atti e le loro conseguenze».

I pubblici ministeri di Madrid hanno confermato le accuse di ribellione e sedizione per aver attentato contro l’unità nazionale, e che prevedono la reclusione per un periodo di tempo fino ai 25 anni. I pm chiedono 25 anni di reclusione per Oriol Junqueras, 17 anni per Jordi Sànchez, Jordi Cuixart e per Carmen Forcadell, 16 anni per Jordi Turull, Raül Romeva, Joaquim Forn, Dolors Bassa e Josep Rull, 11 anni per il capo dei Mossos Trapero, 7 anni per Carles Mundó, Meritxell Borràs e Santi Vila. Contro le accuse, però, si sono espressi molti giuristi, insistendo sul fatto che non esistono prove di esercitata violenza, se non quella delle forze dell’ordine spagnole contro le mobilitazioni del 1° ottobre 2017.

Il referendum del 2017

Il processo contro Barcellona è iniziato a Madrid lo scorso 13 febbraio, quando alla guida del Paese c’era già il socialista Pedro Sanchéz. Al momento della prima udienza, 9 di loro erano già in carcere da un anno e mezzo, fermati poco dopo il referendum a cui parteciparono 2 milioni di persone e a cui votarono sì il 90% degli elettori. Mariano Rajoy, in quel periodo alla guida del governo spagnolo, rivendicò fin dall’inizio la non validità del voto, facendo appello alla non costituizionalità di un pronunciamento sull’indipendenza regionale.

Carles Puigdemont, l’allora presidente della Generalitat de Catalunya, aveva invece rivendicato che il referendum sarebbe stato vincolante anche senza raggiungimento del quorum, perché «sostenuto da una larga maggioranza politica e sociale» della regione. Le autorità spagnole fecero di tutto per impedire le votazioni: il 20 settembre 2017 la guardia civile sequestrò oltre 9 milioni di schede elettorali e arrestò 14 persone, tra cui il segretario generale dell’economia e Finanza Catalana Josep Maria Jové. I blitz della polizia attivarono numerose manifestazioni da parte di migliaia di cittadini di Barcellona. Due settimane dopo il referendum, il Tribunale costituzionale decise all’unanimità la nullità della votazione, in quanto lesiva della supremazia della Costituzione.

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