Dalla fine del dittatore al-Bashir al massacro dei civili: cosa sta succedendo in Sudan?
Doveva essere una transizione di potere pacifica quella che ha costretto alle dimissioni Omar al-Bashir a inizio aprile. Dopo più di un mese di manifestazioni pacifiche e uno sciopero generale che aveva paralizzato il Paese, i negoziati tra gli esponenti dell’esercito e alcuni rappresentanti della società civile, che auspica il ritorno a un Governo civile e non militare, sono tramontati.
Il 4 giugno l’esercito ha aperto il fuoco contro i manifestanti. Da allora sono state uccise decine di persone e ferite a centinaia. Gli arrestati sarebbero un migliaio. L’opposizione ha indetto uno sciopero generale, che è durato solo qualche giorno, ma che adesso potrebbe ricominciare visto lo stallo nei negoziati. Ma quando è nata la crisi e perché?
La fine di al-Bashir
Dopo quasi trent’anni al potere il generale Omar Hassan al-Bashir è stato costretto ad abbandonare la guida del governo. La sua vita ripercorre la storia recente del Paese, dalla sanguinosa guerra civile – che si è conclusa nel 2005 – alla transizione a un regime democratico.
Bashir aveva infatti vinto le elezioni due volte, nel 2010 e nel 2015, anche se con percentuali molto alte, che avevano fatto pensare a brogli. Ma una parte del Paese lo aveva comunque appoggiato, nonostante il mandato di arresto per crimini contro l’umanità e crimini di guerra emesso nei suoi confronti da parte della Corte penale internazionale dell’Aia.
Ma a far crollare la fiducia nel presidente sono state le misure di austerità introdotte nel Paese nel dicembre 2018 con lo scopo di arginare la crisi economica. I tagli ai sussidi per il pane e per il carburante hanno provocato manifestazioni inizialmente nell’est del Sudan, per poi arrivare anche nella capitale, a Khartum, dove in un crescendo generale la popolazione ha cominciato a chiedere le dimissioni del presidente.
La reazione è stata, come da manuale, autoritaria: il 22 febbraio al-Bashir ha dichiarato lo stato di emergenza (di un anno) e ha sciolto il Governo nazionale e regionale, imponendo al parlamento di posticipare gli emendamenti costituzionali che gli avrebbero permesso di candidarsi nuovamente alle elezioni nel 2020.
Il 6 aprile i manifestanti hanno occupato la piazza davanti al quartier generale dell’esercito, chiedendo ai militari di deporre il presidente: una richiesta accolta cinque giorni dopo. L’11 aprile infatti un consiglio di generali – composto da sette membri con a capo il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan – ha assunto il potere, erigendosi a difensori dell’ordine pubblico e della sicurezza.
Da quel momento è iniziato un dialogo difficile – poi degenerato in atti di repressione violenta – con i membri della società civile che chiedevano un periodo di transizione più lungo, di tre anni, prima di indire nuove elezioni, che invece l’esercito vuol tenere entro nove mesi.
Una transizione violenta
La foto di Alaa Sala, 22enne studentessa di ingegneria, che sale sul tetto di una macchina e, con gli orecchini che ricordano i pendenti utilizzati dalle Candàci, le regine sudanesi dei tempi faraonici, alza un dito verso il cielo è diventata un simbolo delle proteste in Sudan.
Le proteste hanno infatti visto la grande partecipazione di giovani e soprattutto di giovani donne, contraddicendo il luogo comune delle donne musulmane – il Sudan è una Repubblica ma vige la legge islamica – sottomesse che non giocano un ruolo attivo nella vita politica del proprio Paese. Sala è stata in seguito ribattezzata “La Regina nubiana”.
Ma l’ottimismo delle prime ore si è presto trasformato in delusione e poi terrore. Dopo la decisione da parte dell’esecutivo di transizione di non onorare l’impegno preso con i manifestanti – che hanno scelto come nome l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento – di mantenere in piedi il governo concordato delle due parti per un periodo di tre anni, è partita l’azione repressiva.
Il 3 giugno sono rimaste uccise più di cento persone e ferite diverse centinaia (350) in una retata delle forze di sicurezza contro i manifestanti democratici nella capitale Khartum. I paramilitari del Rapid Support Forces si sarebbero macchiati anche di abusi sessuali nei confronti dei residenti della capitale: sono diversi i casi di stupro riportati sui social media.
Da lì a poco l’alleanza per la Libertà ha indetto uno sciopero generale ufficialmente durato 8 giorni, ma che ha preso piede sopratutto a partire dalla domenica 9 giugno. Giorni che sono stati segnati da ulteriori scontri con le forze dell’ordine e nuovi morti. Martedì 11 giugno i rappresentanti dell’Alleanza per la Libertà hanno dichiarato la fine dello sciopero e la volontà di tornare a negoziare con il governo militare, di cui però chiedono le dimissioni. Ma per il momento il Consiglio militare transitorio non sembra essere disposto a negoziare.
Così, dopo l’addio di al-Bashir – riapparso in pubblico per la prima volta dalla sua deposizione domenica 16 giugno – il Paese è nuovamente scivolato nell’autoritarismo militare, nonostante le pressione internazionali, sia da parte dei Paesi membri dell’Onu, tra cui l’Italia – anche se Cina e Russia hanno bloccato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza voluta da Gran Bretagna e Germania – sia da parte dell’Unione africana che ha prima sospeso il Sudan e poi dato il via a una serie di pressioni affinché la giunta militare, in mano al generale Abdel Fattah al Burhan e Muhammad Hamdan Dalgo, l’uomo forte dell’attuale governo, si faccia da parte.