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Diplomati in carcere: la maturità si fa anche dietro le sbarre

19 Giugno 2019 - 06:42 Redazione
L'anno scorso erano 700 quelli che finita la prima prova sono tornati in cella

È il giorno della prima prova dell’esame di maturità. Dopo il tema non si parla tanto, non ci sono risultati da confrontare. Si commentano le tracce, si sonda chi ha scelto la stessa, poi a casa a pranzo, a preparasi per la seconda prova. Circa 700 dei 520mila studenti che affrontano la maturità quest’anno, dopo aver consegnato i fogli protocollo, torneranno invece a ripassare in cella.

È stato così per Dehzi, detenuto cinese che ha sostenuto l’esame di maturità nel carcere di Avellino. Dopo aver ottenuto il diploma di geometra, questo ragazzo di 34 anni ha chiesto il trasferimento per studiare ingegneria al carcere di Pisa. «Alla maturità ero tranquillo perché era uscita topografia, una materia in cui ero forte», racconta a Open Dehzi, «In prima prova ho preso 15/15, ho anche fatto copiare tutti gli altri». Già, anche in carcere si copia.

G., un ragazzo albanese, era invece agitatissimo il giorno del primo scritto, al punto da valutare di non dare l’esame. Lì è intervenuta una guardia penitenziaria, che dopo aver fatto leva sulle sue responsabilità nei confronti di chi l’aveva accompagnato lungo tutto il percorso, si è giocato l’ultima carta: «Ma con tutto quello che hai combinato nella vita, hai paura di un esame?»

Alla fine era andato bene, racconta una sua ex professoressa, era stato promosso a pieni voti. Così come S., che con un tema su Pirandello si era guadagnato i complimenti della commissione, che seppur composta per una parte di docenti esterni, non regala nulla. Le opere dello scrittore novecentesco sono care a molti detenuti, spiega a Open Daniela Conviti, che lavora da anni come docente in carcere, «perché pongono l’esistenza di un’altra verità, sogettiva, psicologica, alternativa a quella storica». Un altro tema su cui portavano spesso le tesine (finché esistevano) era l’Antigone, la tragedia di Sofocle che tratta del rapporto tra legge e giustizia.

L’istruzione è stata riconosciuta come elemento essenziale del trattamento penitenziario nel 1975, con l’articolo 15 della legge numero 354. Ai commi terzo e quarto viene inserita anche la possibilità di istituire scuole di istruzione secondaria di secondo grado. In questo articolo viene garantito anche l’accesso agli studi universitari.

L’ex sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi aveva difeso l’istruzione in carcere affermando che contribuisce «ad abbattere la recidiva fino all’80% e aiuta il reinserimento. Chi impara un mestiere durante la detenzione, raramente torna a delinquere una volta tornato libero». Dati raccolti dall’associazione Antigone mostrano che su 87 carceri, solo quattro si sono rivelati privi di spazi esclusivamente dedicati a scuola e alla formazione.

Il numero di iscritti varia secondo le diverse regioni italiane. Al primo posto troviamo la Lombardia, in cui il 36,7% dei detenuti sono iscritti a corsi scolastici, seguita dalla Calabria (35%) e dal Lazio (25,7%). In coda alla classifica troviamo invece Valle d’Aosta (9,4%), Campania (5,5%) ultimo il Molise (4,3%).

La maturità, un traguardo per pochi

Sono però pochi quelli che portano a termine il percorso, spiega a Open Conviti, che lavora nel carcere Don Bosco di Pisa. Due studenti su dieci tra coloro che intraprendono gli studi di secondo grado li portano a termine, stima la professoressa. Se l’istruzione rappresenta un’oppurtunità di riscatto nonché una via da percorrere per sfruttare il tempo passato in reclusione, è difficile che il percorso venga portato a termine.

«I detenuti si rendono conto che su di loro pesa uno stigma, che devono sperare di trovare che qualcuno gli dia una possibilità lavorativa» racconta Conviti, «e questo porta tanti a desistere». La stima del ministero della Giustizia è ancora più pessimista di quella della professoressa: durante l’anno scolastico 2017/2018 si erano iscritti 4.904 detenuti al biennio ma soltanto 502 si sono diplomati, circa 1 su 10. Questa statistica è dovuta anche alla difficoltà nel fare progressi: «Il carcere è un luogo molto rumoroso, è difficile trovare lo spazio mentale e fisico per studiare», spiega Conviti.

Difficoltà che si protraggono anche negli studi superiori. «Ero l’unico in carcere che studiava ingegneria, e non potendo uscire, quando non capivo una cosa non potevo chiedere aiuto a nessun compagno», racconta Dehzi, «dovevo aspettare che tornasse il mio tutor».

Al 31 dicembre 2018, secondo il ministero della Giustizia, erano 302 gli iscritti a un corso universitario. Tanti però, tra quelli che portando a termine le scuole superiori, chiedono di continuare l’apprendimento tramite corsi monografici e approfondimenti. La professoressa Conviti ci racconta che se la maturità permette di emanciparsi, ottenerla non è per tutti liberatorio. «L’ultimo giorno di esami spesso ci chiedono: “Ora non ci abbandonate però vero?”»

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