Clima, il ruolo dell’Italia dopo il veto di Visegrad allo stop delle emissioni nel 2050
Il muro contro muro sovranista alla Ue è partito dai temi ambientali. Il Consiglio europeo non ha raggiunto l’accordo sulla strategia comune di blocco alle emissioni di CO2 entro il 2050: ad annunciare il veto, che di fatto stoppa il provvedimento, sono stati tre dei Paesi del gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia a cui si è unita l’Estonia). I leader dell’Ue, Francia e Germania in testa, non sono riusciti a negoziare un accordo sulla scelta di una data specifica per portare a zero le emissioni di gas serra a metà secolo.
Il gruppo di Visegrad è composto da Paesi con una quota molto alta di sfruttamento di combustibili fossili (in particolare di carbone) utilizzati per la produzione di energia. A guidare questa battaglia ci sarebbe la Polonia. È stato infatti il premier Mateusz Morawiecki a farsi avanti per spiegare le motivazioni del veto. Secondo Morawiecki, i quattro Paesi non potevano sostenere la data del 2050 a causa dell’assenza di una «analisi approfondita» dei costi.
La capofila Polonia sta cercando di trovare un compromesso, che però rischia di essere al ribasso rispetto alle intenzioni di Francia e Germania. Dalla Repubblica Ceca invece si prova a buttare la palla in tribuna facendo riferimento alla Cina, ancora lontana dagli standard ambientali occidentali.
In questo contesto l’onda verde sull’Europa dopo le elezioni continentali è un fattore politico da non sottovalutare, soprattutto perché tema caro ai giovani: il successo di Grüne in Germania (che secondo gli ultimissimi sondaggi sarebbero ora il primo partito) ha danneggiato, oltre ai socialdemocratici, anche la Cdu di Merkel (come già era accaduto nelle consultazioni in Assia e Baviera) che quindi è restia a cedere sullo stop alle emissioni.
Macron, dal canto suo, dopo le proteste dei Gilet gialli aveva ceduto sulle tasse sui carburanti in ottica, appunto, di riduzione delle emissioni: il provvedimento era stato congelato per sei mesi, che però stanno per scadere. Se si arrivasse a un sì condiviso a livello europeo il presidente francese avrebbe più forza per sbloccare la tassa verde, anche in considerazione del fatto che il movimento dei Gilet gialli sembra in una parabola discente.
In questo scenario è tutta da valutare la posizione che potrebbe avere e il ruolo che potrebbe giocare il governo italiano. Non è un mistero il rapporto privilegiato di Matteo Salvini con l’area che fa capo al leader ungherese Orban con cui, prima delle elezioni europee, ha cementato il sodalizio individuandolo come la figura di riferimento, una sorta di pontiere, per una possibile alleanza fra Ppe e sovranisti. Angela Merkel aveva a stretto giro chiuso la porta a un accordo, ma l’ipotesi di un’Opa sovranista sul Partito Popolare europeo sarà di certo una delle possibilità sul campo, soprattutto dopo che Merkel lascerà la Cancelleria nel 2021.
Posto che in queste ore l’attenzione del governo è tutta sulle modalità attraverso cui trovare una soluzione con la Ue al nodo della procedura di infrazione, sul tema delle emissioni si potrebbero aprire le porte a scenari inediti, come un’Italia che, all’interno della Ue, da problema diventa soluzione. Tutto si gioca appunto su quanto il governo in generale e Matteo Salvini in particolare, saprà utilizzare la propria partnership con Orban per ottenere da parte di Visegrad un ripensamento sul veto.
Il tema centrale però è quanto Francia e Germania (e conseguentemente l’Italia) vorranno investire sul provvedimento verde. Quanto il movimento guidato da Greta Thunberg sia riuscito a permeare le coscienze delle leadership europee o, più prosaicamente, quanto elettoralmente valutino producente spendersi per la battaglia. Il veto arrivato da Visegrad, come abbiamo visto, ha ragioni più economiche che ideali. E questo è un punto di partenza non necessariamente negativo: le questioni economiche possono essere negoziate, quelle ideali meno.
Vero è che i sovranisti europei, e in particolare quelli di Visegrad, si sono impegnati durante la campagna elettorale europea nel dire no a una politica ambientalista fortemente vincolante in seno alla Ue. Ma è altrettanto vero che il trionfo sovranista non c’è stato e che di fatto oggi sono una minoranza nel Parlamento europeo. Minoranza che però può giocare il suo ruolo nel Consiglio ponendo il veto. Una carta che i Paesi dell’Est sanno di doversi giocare nel modo migliore.
È qui che potrebbe entrare in partita il governo italiano. Lo stop alle emissioni nel 2050 è una proposta che nasce in area scandinava, ma è stata soprattutto una battaglia portata avanti dal polacco Donald Tusk, che è inviso, per usare un eufemismo, all’attuale governo sovranista di Varsavia. Un dialogo con Tusk, anche per ragioni di politica interna, sembra impossibile. In questa dinamica si potrebbe inserire l’Italia sfruttando i buoni rapporti nati in seno all’internazionale sovranista per convincere, come si diceva i Paesi dell’est a fare un passo indietro sulle emissioni, soprattutto se Francia e Germania decideranno di aprire i cordoni della borsa e mettere sul tavolo i fondi necessari alla riconversione green del comparto energetico di quei Paesi.
Ma l’Italia avrebbe anche un altro asso nella manica da potersi giocare, quello dei rapporti con il convitato di pietra dell’intera vicenda: la Russia. Rinunciare alla rivoluzione verde vorrebbe dire per il vecchio continente mettersi nei prossimi decenni nelle mani di Mosca, essendo costretta a dipendere dal gas e dal nucleare russo. Anche se non sono sempre sembrati trasparenti, i rapporti con Putin, soprattutto per quanto riguarda la componente leghista dell’esecutivo, certamente ci sono e più volte l’Italia si è fatta portavoce degli interessi di Vladimir Putin, in particolare per quanto riguarda la fine delle sanzioni imposte a Mosca (posizione che non è stata gradita da Washington).
Il futuro verde dell’Europa passa quindi dalle piazze colorate dei giovani capitanati da Greta alle stanze del potere europeo, in un gioco di pesi ed equilibri geopolitici nei quali l’Italia può provare a dire la sua e a utilizzare quella che oggi sembra una debolezza, essere l’unico dei grandi Paesi europei a guida sovranista, come una forza.
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