Maturandi classe 2000, quali prospettive?
Sono giorni di esami per quasi 520.000 ragazzi italiani. Di ripassi frenetici, di scongiuri, di dizionari pesanti, di passi sempre più leggeri per ogni foglio protocollo consegnato, in vista – a questo punto – degli orali. All’appello, quando si mettono i cellulari nella scatola di cartone e si incrociano le dita, mancava però qualcuno. È quel 14% di giovani italiani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato precocemente gli studi. Sono numeri Istat del 2017, che per la prima volta dal 2008 non hanno registrato un miglioramento rispetto all’anno precedente.
I maturandi che dopo le prove scritte si preparano per gli orali, se le percentuali rimarranno stabili rispetto agli ultimi anni, verranno quasi tutti promossi (erano il 99,5% l’anno scorso). Solo uno su 20 prenderà 100 mentre circa uno su tre otterrà un punteggio tra 61 e 70. Se decideranno di smettere di studiare dopo il diploma, secondo l’Istat, nei prossimi tre anni uno su due lavorerà (tre su quattro la media europea).
Non solo un pezzo di carta
Se il dato sulla disoccupazione giovanile resta allarmante (33%) i ragazzi del ‘2000 che sosterranno con successo l’esame avranno il 19,1% in più di possibilità di lavorare rispetto ai loro compagni che hanno abbandonato la scuola prima di loro, mostra l’Istat. Avranno anche meno possibilità di vivere in condizioni di povertà. Solo il 3,8% di chi ha conseguito un titolo almeno di scuola secondaria superiore vive in condizioni di indigenza, mentre per chi ha raggiunto al massimo la licenza di scuola media, l’incidenza è del 10,0%. Lo rivelano dati Istat pubblicati il 18 giugno.
Meno di uno su due andrà all’università
Se i ragazzi vogliono guadagnarsi un altro vantaggio del 10% circa nel trovare lavoro entro tre anni dal conseguimento del titolo di studio conviene loro proseguire con l’università. Tra quelli che lo fanno, il 62,7% riuscirà ad avere un lavoro entro tre anni dalla laurea (la media Ue è del 84,9%), come mostrano dati Istat. In più di un caso su tre si tratterà però di un lavoro precario, mentre per chi ha finito solo la scuola dell’obbligo, la possibilità di avere un «contratto atipico» è del 21,2%, ha rivelato l’ex presidente dell’Istat, Giorgio Alleva.
Una scelta, quella di frequentare l’università, che i ragazzi italiani compiono sempre meno. Nel 2003-2004 si sono immatricolati 337mila studenti mentre nel 2016/2017 le iscrizioni agli atenei sono state 274.339. In Italia il tasso di accesso all’università dei neo diplomati, (dato misurato su ragazzi che hanno meno di 25 anni) è del 41% contro il 48% della media dei Paesi che fanno parte dell’Ocse. Il divario di genere in questo senso è significativo: il 55% delle ragazze italiane decide di proseguire gli studi contro il 35% dei ragazzi.
Lo scarto tra i numeri italiani e quelli dell’Ocse è forse dovuto al fatto che se in media nei 36 paesi che compongono l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico lo stipendio di un neolaureato e quello di un diplomato stanno 155:100, in Italia il rapporto è di 114:100. Per i giovani italiani, tra i 25 e 34 anni la differenza retributiva di chi ha una laurea è del 14,1%, secondo la nuova edizione dello University Report dell’Osservatorio Jobpricing, in collaborazione con Spring Professional, elaborati per La Repubblica.
Se invece si calcolano gli introiti da lavoro di tutti i laureati italiani tra i 25 e i 64 anni, questi sono in media superiori del 42% rispetto a quelli dei diplomati. A livello verticale gli studi pagano sempre meno: gli stipendi dei neolaureati sono calati del 15% negli ultimi 10 anni e i giovani di oggi guadagnano in media il 36% in meno dei loro padri.
Né studio né lavoro
Tra i diplomati la quota di quelli che non studiano e non lavorano è in rapido calo. L’Italia continua comunque ad essere in testa alla classifica per il numero di NEET in Europa. Nel 2018, secondo dati Eurostat pubblicati nell’aprile 2019, il 28,9% dei ragazzi tra i 20 e i 34 anni non studiano né lavorano. Quasi un ragazzo su tre, mentre in Europa sono circa uno su sei.
Questo è anche uno dei motivi che spingono i giovani italiani a trasferirsi all’estero all’indomani del diploma. Non esistono dati ufficiali sul numero dei ragazzi che escono dal nostro Paese per studiare perché in molti mantengono la residenza in Italia e non si iscrivono all’Aire. Negli ultimi 5 anni più di 244.000 giovani si sono trasferiti all’estero di cui il 64% con un titolo di studio medio-alto.
Secondo l’agenzia di consulenza Omni Admissions, che supporta gli studenti italiani che intendono intraprendere un percorso universitario internazionale, il fenomeno dei liceali che scelgono atenei fuori dai confini del nostro Paese è in rapida crescita: circa il 20% in più ogni anno. Le mete più gettonate rimangono il Regno Unito, nonostante Brexit (più di 2.000 studenti l’anno), gli Stati Uniti che sono in ripresa dopo un calo di interesse in seguito all’elezione di Donald Trump, e l’Olanda.
La ragione principale che spinge i giovani lontano sembra essere un mercato del lavoro che valorizza sempre di più una formazione internazionale. Perché anche il miglior liceo classico, dalla crisi del 2008, non è più solo un luogo dove si studiano Catullo e Dante. Ora le aule sono diventate luoghi in cui i giovani prendono coscienza delle aspre condizioni professionali che li aspettano.
Ora però non è del famoso 33% né dei NEET che si preoccupano i primi nati nel nuovo millennio. Neppure di quando andranno in pensione nel 2070, né di scappare all’estero con il cervello in spalla. Manca ancora l’orale, per quasi tutti lo scoglio più duro, al futuro ci si penserà poi.
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