Calcio, quando la bandiera sventola più dei soldi
È una categoria riservata e in estinzione, causa naturale flusso dei tempi e delle leggi di mercato; li chiamano “one man club”, i fedelissimi che non l’hanno mai abbandonata, ancor più eroi se la promessa di appartenenza ad imperitura memoria ha trionfato sul materiale, ma potentissimo fascino dei soldi.
Francesco Totti
Il capitano della squadra around the world è Francesco Totti, il trasteverino cresciuto nella Lodigiani e che nel lontano 1989, sotto la pioggia di pus dei brufoli adolescenziali, ha detto no al Milan che si era presentato con un bel po’ di quattrini a casa di mamma Fiorella. Pure lei romanista sfegatata, pure lei secca nel dare picche in faccia al denaro. Francesco Totti, l’icona.
L’uomo che ha vinto forse meno di quello che avrebbe potuto (e dovuto) vincere. E che a inizio anni 2000, nel pieno della carriera e del talento, ha detto “Grazie, no” anche al Real, l’impero egemone del mondo pallonaro prima che gli sceicchi facessero cappotto. Nel 2002 Totti-Real sembrava cosa fatta. Ma c’era una pagina da scrivere. Fatto e tutto, rigorosamente, in giallorosso con annesso, doppio addio. Il primo straziante sul campo, il secondo, senza mandarle a dire alla società, da dirigente.
Carles Puyol
Totti a Roma, Carles Puyol a Barcellona. Pure lui one man club, pure lui tentato dal Milan e dal rumore del salvadanaio. Ma al cuor non si comanda. 15 anni di barcelonismo, passando per la miniera d’oro della Masia e 21 titoli totali. Un idolo del Camp Nou, in un modo o nell’altro teatro del romanticismo più genuino
De Jong cede e va al Barcellona. Ma ha una richiesta per l’arbitro.
Lo conferma il passaggio, ormai definito, del fuoriclasse olandese De Jong ai catalani. 85 milioni di investimento nelle casse dell’Ajax ma anche la clamorosa richiesta del centrocampista (l’erede di Xavi, altra leggenda blaugrana) che, nell’ultima apparizione alla Amsterdam Arena, ha chiesto e ottenuto dall’arbitro di allungare il tempo di recupero per procrastinare simbolicamente la sua permanenza nel club.
Alessandro Del Piero
Insomma c’è chi cede tra le lacrime, chi non cede e chi cede solo con l’embargo. Prendi Alex Del Piero che della Juve è rimasto trascinatore anche in B, riportandola sul tetto d’Italia perché “Un capitano non può mai lasciare la sua Signora”. L’addio è poi arrivato, perché il calcio è per i romantici ma anche per le decisioni spietate, a costo di essere impopolari.
Del Piero saluta, ma dice sì solo se si va lontano, lontanissimo. In Australia, dove la stella è stella senza intaccarne il ruolo di figura iconoclasta juventina. Un diritto acquisito per chi ha accettato la B proprio mentre il Manchester United era pronto a ricoprirlo d’oro.
Giggs il fedelissimo. Almeno in campo
Proprio a Manchester, dove di fuoriclasse ne hanno visti in frotte (vero CR7?), è leggenda, sponda United, Ryan Giggs, gallese d’origine e inglese d’adozione grazie al papà Danny, che di cognome fa Wilson e che, ragazzino, lo porta in Inghilterra per motivi di lavoro. Era un rugbista di buon livello. Poteva esserlo anche Ryan che, dopo la separazione tra i genitori, decide di prendere il cognome della mamma e di fare il calciatore.
Il sinistro, d’altronde, non è niente male. In 24 anni di United vincerà praticamente tutto, rifiutando le offerte più ammiccanti e diventandone pure allenatore. Un monosquadra, 37 titoli vinti e quel destino scritto all’insegna della fedeltà. Almeno nel calcio, avendo avuto qualche scappatella con la moglie del fratello e annesse accuse di infedeltà acuta.
Gerrard, il quinto Beatles. E quella macchia indelebile
In Inghilterra è stato ed è icona anche Steven Gerrard, oggi allenatore dei Rangers (Scozia), ieri e per sempre gonfalone del Liverpool. Dove non lo vedi immortalato sulle strisce con i Beatles, ma poco ci manca. Steven, che nasce sul Merseyside dove il Liverpool è religione, fa tutta la trafila nei Reds.
Per i quali tifa; ai quali è aggrappato anche nel ricordo del cugino Jo-Paul, uno dei 96 morti schiacciati tra le recinzioni della tragedia di Hillsborough, anno 1989. Ha giocato e vinto per lui, Steven. Che, come in ogni storia che si rispetti, ha il suo tallone d’Achille.
Ha vinto praticamente tutto, Champions compresa (fu lui a guidare l’incredibile rimonta di Istanbul contro il Milan); tutto, ma non la Premier League. Un maleficio, una condanna che cinque anni fa profumava di condono. Aprile 2014. Si gioca Liverpool-Chelsea. Con una vittoria i Reds ipotecano il titolo. Ma arriva il k.o. Arriva così, con lo scivolone, poi diventato meme, di Gerrard. Che resterà, in lacrime, steso sul campo.
La macchia che guasta, ma non copre. Il re resta tale e fedele al suo popolo. Lo ha detto e ripetuto più volte, l’uomo in rosso del Merseyside: “Quando morirò non portatemi in ospedale, portatemi ad Anfield. Lì sono nato e lì voglio morire”.
Foto di copertina / Ansa