Ponte Morandi, i Meganoidi: «Senza lo scheletro sarà più difficile ricordare le persone» – L’intervista
I Meganoidi sono una band genovese molto legata al territorio. Nati nel 1997, hanno ormai una carriera più che ventennale. Come molti genovesi hanno assistito alla demolizione di ciò che restava del Ponte Morandi dopo il crollo dello scorso agosto in cui hanno perso la vita 43 persone.
Luca Guercio (tromba, chitarra e cori) e Davide Di Muzio (voce) hanno raccontato a Open come hanno vissuto l’ultimo atto della vita del ponte e cosa ha rappresentato, per Genova e per loro, la tragedia del crollo.
Avete assistito alla demolizione del Ponte Morandi e quali sono state le vostre sensazioni, da genovesi?
L.G.: «Noi stavamo partendo per un concerto e ha influito sullo spirito con cui ci siamo messi in viaggio per andare a suonare. Soprattutto perché per noi rappresenta da un punto di vista architettonico la chiusura di un capitolo, però c’è bisogno di fare anche chiarezza e giustizia su quello che è accaduto. Noi essendo genovesi, ed essendo sempre molto vicini alla popolazione e in particolare agli sfollati e le persone che hanno subito danni non solo materiali, ma anche emotivi dalla tragedia del crollo, temiamo quello che temono un po’ tutti quando accadono queste cose: che ci si dimentichi presto delle persone».
A proposito dei danni non materiali ma emotivi, il dottor Marco Lagazzi, psichiatra forense, ha detto a Open che i sopravvissuti e i parenti delle vittime manifestano gli stessi sintomi di chi è scampato all’11 settembre…
D.D.M.: «Credo che sia un paragone che assolutamente ci sta, è comprensibile. Io vivo in tutt’altra parte di Genova, ma abbiamo avuto uno studio di registrazione lì, Luca stesso vive a poche centinaia di metri dal ponte. Questa mattina arrivando in scooter ho visto che non c’era più il ponte e non riuscivo più a riconoscere quella parte di Genova. Ho avuto una sensazione strana. E, come ha detto Luca, ho pensato subito alle vittime e ai familiari: cosa succederà adesso che tutto è cancellato e si rifarà una cosa completamente nuova?»
L.G.: «Per chi non vive a Genova quel ponte non è percepito come una routine così marcata come per la popolazione locale. Essendo la Liguria e Genova una città dal punto di vista logistico inospitale, proprio delle strade intendo, quel ponte mediamente noi lo facevamo, solo come Meganoidi, figurarsi chi lavorava in ufficio, due volte al giorno minimo. Quindi anche da un punto di vista emotivo, anche per chi non ha subito realmente in quel momento una perdita, è un po’ come quando scopri che il tuo vicino di casa è un assassino: è sempre stato lì e non avresti mai immaginato che avrebbe potuto uccidere».
Tutti quelli che vivono qui hanno pensato: «Poteva succedere a chiunque».
L.G.:«Poteva realmente capitare a chiunque. Una parte razionale di noi dice che se fosse successo in un altro momento sarebbero morte mille persone, anche se poi un morto o mille è sempre una tragedia. Sarebbe stata una strage ancora più grave di quella che è stata».
Prima dicevate che con la rimozione dei monconi si rischia di perdere anche più velocemente la memoria di quello che è successo. È così?
D.D.M.: «Il senso di quello che volevo dire è esattamente quello. Noi abbiamo amici direttamente coinvolti della zona e sono persone tormentate: sono persone, come dicevi, che hanno subito uno shock veramente paragonabile all’11 settembre. è una tragedia che rimarrà lì, dentro la loro testa per sempre credo.
L.G.: «Quello che è successo oggi, nei termini in cui è successo, ti dice già che quello che le persone siano dimenticate non è più un rischio, è già una realtà. Leggendo i post sui social network ho captato quasi un plauso all’opera ingegneristica della demolizione (che è, attenzione, stata gestita bene), ma sembra ormai che il grassetto sia messo su altro e non sul dolore e sulla voglia di verità e giustizia».
Il fatto che il Ponte non sia caduto per un terremoto ma per un potenziale errore umano, secondo voi, rende ancora più difficile sopportare questa tragedia?
L.G: «Il rischio è che il barile si scarichi tante volte finché la colpa poi non sia di nessuno. Questa è la cosa che fa forse più male. Il fatto di aver subito una gravissima perdita e non sapere neanche da chi poter recriminare o gridare semplicemente il proprio dolore. Poi c’è un altro rischio: che ogni passaggio per la ricostruzione diventi una passerella per aver il diritto di dire: “Ci sono io qua che faccio le cose bene”. Quando in realtà la cosa che servirebbe di più è cercare di indagare al meglio su quello che è successo».
«Che sarà un percorso lunghissimo e non c’è nessun bisogno di fare processi in tv o in piazza. Una cosa talmente grande che è chiaro che abbiano influito tante variabili (l’incuria, l’incapacità di comunicare fra aziende che gestiscono la manutenzione etc.). Ci possono essere mille elementi, che io personalmente non sono in grado di conoscere: però il nostro Paese per una volta ha bisogno di risposte chiare».
«Le persone che abitavano lì, le attività che sono state messe in ginocchio da quel 14 agosto e che quelle che hanno dovuto chiudere, chi è stato privato della propria casa, dei propri ricordi, dei propri figli e delle proprie sorelle (43 individui sono morti, ricordiamolo sempre) sono tutte persone che avrebbero bisogno di sapere di più e in tempi brevi».
Voi avete intrapreso anche un’iniziativa musicale per sostenere in qualche modo chi è stato colpito dal crollo del Ponte: Un concerto per Genova. Come è nata questa idea?
«Il 16 agosto, due giorno dopo la tragedia, c’è stata la manifestazione in Piazza de Ferrari e Beppe Platania, che un organizzatore di concerti, mi ha chiesto: “Se organizziamo qualcosa che dia seguito a questa manifestazione i Meganoidi ci stanno?” Io ho riposto: “Subito”».
«Così ci siamo fatti promotori insieme agli Exo-Tago. Abbiamo iniziato a chiamare musicisti, amici di tutti generi che abbiamo incontrato in questi anni, e abbiamo organizzato un evento all’RDS Stadium, una due giorni di musica per recuperare qualche soldo per gli sfollati, ma soprattutto per ricordare che ci sono delle persone che hanno subito delle gravi perdite. Secondo me con la musica, con la cultura, con l’aggregazione è forse il modo migliore per farlo. Ce ne vorrebbero dieci concerti al mese che ricordino le disgrazie di questo Paese».
«Abbiamo organizzato questo evento perché credevamo che fosse giusto dare un segnale. Tutti i gruppi che hanno partecipato, noi, gli Exo-Tago i Ministri, i Pankreas, Omar Pedrini e tanti altri, hanno cercato di racimolare il loro pubblico tutto insieme per dirgli: “Non dimentichiamoci di queste persone”. E non è detto che non lo rifaremo l’anno prossimo. Viviamo in una società veloce in cui è facile dimenticare. Noi abbiamo la fortuna di vivere qui e possiamo fare di più rispetto a quello che per esempio possiamo fare per un aquilano vittima del terremoto».
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