Nepotismo, precariato e pochi fondi: «Noi, ricercatrici emigrate, per inseguire il sogno accademico»
Lo scandalo concorsi che ha coinvolto l’università di Catania, dove quaranta docenti, fra cui il rettore, sono stati sospesi e sono indagati per reati gravissimi come associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta, ha riacceso il dibattito pubblico sulla meritocrazia e sulle opportunità di carriera offerte dal mondo accademico
Nel 2008, l’economista Roberto Perotti, già consigliere economico del governo Renzi sulla spending review, pubblicò un volume inequivocabilmente intitolato L’università truccata, rivelando casi eclatanti di nepotismo di spartizione delle cattedre. Un male radicato, «una catastrofe educativa – scrisse Perotti – che pesa sul futuro dell’Italia».
Un altro, drammatico, problema è quello dell’assenza di fondi che impatta in particolare sulla ricerca. In dieci anni – dal 2007 al 2016 – secondo il Gruppo 2003 sono stati tagliati il 21% dei contributi: un buco da 2 miliardi di euro che, inevitabilmente, ha assottigliato le file dei possibili fruitori di dottorati, assegni e progetti di ricerca.
Nello stesso arco di tempo, infatti, il numero dei dottori di ricerca si è quasi dimezzato, con un crollo del 43,4%. Secondo l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, che ha condotto lo studio, a farne le spese sarebbe soprattutto il Sud dove il calo sarebbe del 55,5% e provocherebbe un gap ancora maggiore, rispetto alle altre possibilità di carriere per i giovani, con il Nord e il Centro.
Open ha raccolto le storie di due ricercatrici italiane che hanno deciso di lasciare l’Italia e proseguire la carriera accademica all’estero. Due storie diverse e complementari. Quella di Barbara, dottorata in materie umanistiche che si è vista costretta a fuggire dall’Italia e quella di Carlotta, che invece si occupa di ricerca in ambito scientifico, che vive il suo trasferimento in Francia non come un esilio, ma come un modo per lavorare nell’eccellenza del suo campo con maggiori possibilità d’indipendenza.
«In Italia non si sopravvive con l’accademia»
«È talmente normale che nessuno ci fa più caso: per avere un contratto da ricercatore in Italia devi metterti in fila e aspettare il tuo turno. Non c’è concorso che tenga». Barbara ha 35 anni, ha preso un dottorato di ricerca a Roma Tre in studi americani nel 2015 e da un anno vive a Danzica, in Polonia. «Ci ho provato a restare. Ma lo scorso anno ho deciso che non era più il caso di aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato».
«Ho fatto il dottorato in studi americani con una tesi su Joyce Carol Oates a Roma tre da 2012 al 2015 – ci racconta – Poi ho lavorato per la mia docente per quasi 3 anni facendo il cultore della materia. Qualcuno mi ha consigliato di aspettare “perché magari esce qualcosa”- spiega Barbara – ma l’unica opportunità erano contratti di docenza semestrali che fai più per la gloria che per altro. In italia non si sopravvive con l’accademia. Per scrivere e pubblicare ho fatto anche l’insegnante, mi sono arrangiata».
Spesso, oltre a seguire i loro progetti, dottorandi, dottori di ricerca e cultori della materia fanno lezione ai corsi, conducono gli esami. Tutto gratis, ovviamente. «Non è una vita. Lavoravo anche 20 ore al giorno, facendo tre lavori. È stato abbastanza un inferno. Poi nel 2018, la svolta: la di fare application e il lavoro in Polonia che arriva un po’ per caso. Tre giorni di colloquio e subito l’offerta per il ruolo da ricercatrice. «Doveva durare un anno e ora mi hanno rinnovato il contratto e stanno parlando anche di farmi un contratto indeterminato e tra due anni farmi diventare associato».
Il settore disciplinare di cui si occupa Barbara è letteratura angloamericana, settore in cui Italia i concorsi praticamente non esistono, ci spiega. Aveva provato un concorso a Catania, l’università dello scandalo di questi giorni, per insegnare linguistica inglese.
Sulla sua nuova situazione vede qualche luce, ma anche molte ombre: «La Polonia è meravigliosa – ci dice – ma gli stipendi sono molto bassi. Vanno bene per vivere qui, non in Italia. E poi il clima è tremendo!»
Quello che piace a Barbara della sua esperienza polacca ed è di esserci arrivata con i propri mezzi e attraverso una selezione trasparente: «Io non conoscevo nessuno qui. A Danzica sono entrata nonostante questo. Si sono basati su curriculum e pubblicazioni».
Una situazione che si ripercuote positivamente anche ne i rapporti umani: «Non c’è lo stress del rapporto con i colleghi. Qui nessuno sta rubando il posto a nessuno, e nessuno vuole rubare il poco che c’è all’altro. C’è una grande collaborazione tra ricercatori».
Carlotta
Carlotta ha 35 anni ed è di Messina, dove si è laureata in geologia, prima nel corso triennale, poi in quello specialistico. Al secondo anno di università ha capito che avrebbe voluto dedicare il suo futuro alla mineralogia, ma a Messina – spiega – non c’era alcuna possibilità di ottenere un dottorato, per i motivi per cui «mi state facendo questa intervista», dice.
Per questo ha deciso di trasferirsi a Modena dove si è addottorata nel 2012. E qui il copione si è ripetuto anche per lei: «In quell’anno il mio prof di dottorato non ha vinto nessun PRIN, che sono i fondi statali con cui è possibile pagare gli assegnisti. Quindi non poteva assicurarmi di tenermi come assegnista. Allora mi sono un po’ guardata in giro».
Carlotta vince un assegno di ricerca in chimica inorganica all’università dell’Insubria «un campo di studio – ci spiega – molto vicino alla mineralogia. Da lì ho cambiato un po’ il soggetto della mia ricerca, mi sono riadattata diciamo, e sono rimasta un anno e mezzo a Como».
A dicembre del 2013 arriva l’opportunità del trasferimento in Francia al prestigioso European Synchrotron Radiation Facility (ESRF). «Ho fatto il concorso per un posto come post doc. Al Esrf – ci racconta senza nascondere un certo orgoglio di far parte del progetto – hanno un sincrotone dove utilizzano i raggi X con diverse tecniche per diverse tematiche: dall’imaging, alla saturazione, alla tomografia, alla biologia strutturale. Io utilizzo la diffrazione».
Il ruolo da post doc nel campo della diffrazione da polveri le dà la possibilità di accedere al concorso per scientist: «E l’ho vinto. Si tratta di un contratto da 5 anni e che al momento è la mia posizione in corso. Non è un contratto a tempo indeterminato, ma neanche la situazione precaria che vivevo in Italia».
Ma quella di Carlotta non è una fuga: «Probabilmente se ci fosse stata la possibilità di continuare in Italia non mi sarei mai chiesta o mai sentita fortunata ad andarmene – ci spiega – Nel senso che non avrei visto altre possibilità e probabilmente sarei rimasta». Ma il fatto di essere andata via, insiste su questo punto, «non mi fa sentire una vittima di questo sistema o non mi fa sentire sfortunata o invidiosa nei confronti delle persone che sono rimaste. Alla fine sono contenta di essere andata via».
All’Esfr, in sintesi, ha possibilità migliori rispetto a quelle che avrebbe potuto avere in un’università italiana. « Nel lavoro che faccio adesso ho una certa indipendenza, ho dei fondi che posso gestire io. Vedo dei colleghi che sono rimasti che lavorano negli istituti di ricerca e dipendono ancora dal loro professore capogruppo: sei subordinato a loro e devi fare quello che ti dicono perché se non stai sotto la loro ala poi alla fine non ti possono garantire qualcosa di più concreto come una posizione più lunga da ricercatore A o da ricercatore B».
Insomma la sua scelta è a metà fra un obbligo per condizioni di forza maggiore e la voglia di trovare qualcosa di meglio: «Non mi sento una vittima perché alla fine mi va bene così. Ho la possibilità di lavorare in una struttura di eccellenza e con maggiore indipendenza: vedo colleghi della mia età che sono in condizioni peggiori della mia».
Quello che Carlotta apprezza del suo lavoro oggi e che in Italia le mancava è soprattutto l’indipendenza sia dal punto di vista professionale che della gestione dei fondi a disposizione: «Io sono un po’ uno spirito libero da questo punto di vista, ho i miei soldi e gestisco le cose come voglio io».
Poi getta uno sguardo sul futuro. «La mia posizione è a tempo determinato e quindi cerco anch’io di lasciarmi aperte un po’ tutte le strade. Non vorrei tornare in Italia, ma ho fatto l’abilitazione a professore associato, perché nella vita non si sa mai, anche se comunque non è mia intenzione tornare in Italia».
Carlotta preferirebbe dedicarsi alla ricerca nell’industria piuttosto che rientrare in Italia dove, ci dice, «il sistema è molto viziato. Una volta che si conoscono altre realtà da fuori è più facile capire quanto il sistema sia viziato e quanto si sia fortunati a non esserci dentro».
Nell’immagine in copertina, Carlotta al lavoro.
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