L’abbonamento alle riviste scientifiche costa troppo, l’università della California rinuncia alla principale
Hanno prodotto il 10% degli articoli scientifici pubblicati negli Stati Uniti ma dal febbraio scorso non possono accedere – se non a proprie spese – agli studi nei quali non sono stati coinvolti: sono i ricercatori dell’Università della California.
L’Istituto ha infatti smesso di rinnovare l’abbonamento annuale alla Elsevier, il colosso dell’editoria scientifica mondiale. Ogni anno le Università devono versare circa 11 milioni di dollari per permettere ai propri studenti e ricercatori l’accesso agli articoli integrali delle sue riviste.
Il problema più immediato non è semplicemente quello del costo, ritenuto troppo elevato da tanti altri campus americani. Elsevier è accusata di fare da monopolista, vantando il controllo di circa tremila riviste.
Così il caso va oltre l’esosità, ma investe anche una vecchia questione che rimane aperta nel mondo dell’editoria scientifica: i paper accademici devono essere di pubblico accesso o accessibili solo agli abbonati?
In una comunità scientifica in cui si pubblica ogni anno una vasta mole di ricerche, non è facile orientarsi tra i lavori che portano davvero avanti il progresso della ricerca e quelli che in realtà si limitano a suggerire qualche correlazione non causale, o che semplicemente sono stati eseguiti male, più o meno consapevolmente.
Oltre a questo abbiamo un ambiente inquinato da pubblicazioni predatorie, dove è possibile costruire altrettanti imperi imprenditoriali, come quello di Omics, condannata recentemente al versamento di una multa record: la casa editrice indiana diffuse dal 2011 al 2017 articoli scientifici privi di fondamento. Bastava, infatti, che gli autori pagassero una somma di denaro per vedere i propri lavori pubblicati.
Open access o abbonamento?
Ed è qui che entriamo nel cuore del problema. L’open access (la consultabilità pubblica degli articoli) comporta un ingente trasferimento delle spese editoriali verso gli autori degli studi, gli istituti o le aziende che ne supportano il lavoro. Questo può accadere anche per le riviste che si reggono col finanziamento degli abbonati, se per caso occorre correlare gli articoli con grafici e statistiche particolari.
Le riviste che si reggono mediante abbonamento potrebbero contraddire un punto fondamentale del metodo scientifico che regge la comunità degli scienziati: l’interdisciplinarità e la possibilità di far ripetere gli esperimenti a chiunque.
D’altro canto se gli editori vogliono reggersi in piedi sono incentivati a una verifica rigorosa dei contenuti, altrimenti verrebbe meno l’interesse degli abbonati.
Peer review e ripetibilità della ricerca
Un’altra questione verte sui revisori, che solitamente non vengono retribuiti: quegli esperti ingaggiati dalle case editrici per verificare che gli articoli descrivano una ricerca eseguita correttamente, la cosiddettà peer review.
Questo non significa necessariamente che lo studio dimostri un fenomeno reale, occorre infatti poter ripetere gli esperimenti: in questa fase si potrebbe scoprire comunque che le misure sono errate o eseguite in maniera truffaldina.
Abbiamo diversi esempi di ricerche in grado di superare la peer review che si sono dimostrate prive di fondamento, come nel caso dello studio-truffa di Andrew Wakefield sui vaccini, pubblicato sulla prestigiosa The Lancet, o più recentemente l’articolo che dimostrerebbe l’efficacia dell’omeopatia, pubblicato su Scientific Reports, facente parte del circuito di Nature. Questi problemi si risolvono pubblicando una ritrattazione, dove si avvisano i lettori che lo studio in questione era errato.
Revisioni gratuite o retribuite?
Anche se i revisori non possono garantire al 100% che un lavoro sia genuino, restringono comunque la probabilità di prendere delle cantonate, accrescendo l’impact factor della rivista, ovvero il suo livello di credibilità, misurabile calcolando diversi parametri, come il numero di volte in cui i suoi articoli sono stati citati altrove.
Sarebbe più corretto retribuire sempre i revisori? O forse non dovrebbero mai avere compensi, a garanzia ulteriore della serenità con cui svolgono le verifiche? Sono problemi le cui risposte possono avere pro e contro, cambiando un equilibrio molto delicato a garanzia dell’integrità della ricerca.
Open access non significa sempre scarsa qualità
Infine, open access non significa automaticamente “rivista predatoria”. Abbiamo diversi esempi virtuosi, come quello della prestigiosa Plos One, del tutto aperta alla consultazione pubblica.
D’altro canto, gli articoli scientifici non sono “pop”, non presentano contenuti divulgativi, bensì accademici, che comprensibilmente si rivolgono solo a un pubblico di addetti ai lavori. Altro aspetto di cui si deve tener conto.
Resta tuttavia un problema che anima università come quella californiana: impedire che si creino colossi editoriali che abbiano un eccessivo controllo delle pubblicazioni, limitando con prezzi esagerati l’interdisciplinarità e la falsificabilità della ricerca, in un mondo in cui i laureati in materie scientifiche e tecniche saranno sempre di più.
(Foto di ElasticComputeFarm da Pixabay)
Sullo stesso tema:
- Ha vinto Orbán: in Ungheria il governo controllerà la ricerca scientifica
- Il machine learning sta aggravando la crisi della ricerca scientifica?
- Basta balle sul clima, l’appello di 200 scienziati italiani contro le bufale sui cambiamenti climatici
- Malattie cardovascolari, c’è un integratore che potrebbe aiutarci (davvero)