Cina, l’economia frena: se fosse un bene per gli stessi cinesi? La risposta dell’economista – L’intervista
La Cina, la potenza commerciale che ci abituato a prestazioni di crescita sorprendente, in grado da sola di trainare l’economia di mezzo mondo, sta rallentando. Il Pil del secondo trimestre 2019 chiude in rialzo annuo del 6,2%. Se in Europa sarebbe una percentuale da capogiro, per Pechino si tratta del dato peggiore negli ultimi 27 anni.
C’è chi attribuisce alla guerra dei dazi con gli Stati Uniti la contrazione dello -0,2% rispetto al trimestre precedente. Chi colloca la decelerata del dragone in un rallentamento dell’economia globale e in un generale clima d’incertezza globale. Eppure, quella che potrebbe sembrare una notizia negativa, ha delle chiavi di lettura sorprendenti. Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Alessia Amighini, massima esperta di economia cinese.
Professoressa, sembra che i giornali abbiano accolto con stupore la notizia del Pil cinese in rallentamento. Lei che interpretazione dà?
«Non dovrebbe essere una notizia inaspettata. Anzi: è dal 2014 almeno che la Cina rallenta. E per ammetterlo lo stesso Governo, celebre è la dichiarazione riguardante i dati del Pil leggermente aggiustati a rialzo, non capisco dove sia la sorpresa. Ma c’è una cosa ancora più inspiegabile dello stupore: contrariamente a quanto si possa pensare e leggere sui giornali, questa è una notizia positiva. Il modello cinese sta prendendo un ritmo più sostenibile. E infatti il Governo aveva pubblicato, a inizio anno, stime in linea con quanto apprendiamo oggi dai dati».
Cosa intende per sostenibilità del modello economico?
«Un modello sostenibile è quello che, in un certo senso, le economie mature hanno già raggiunto e funziona in questo modo: il grosso della domanda interna, circa due terzi, arriva dal consumo delle famiglie, e viene quindi pagato con i redditi dei cittadini. Ed è un sistema che si tiene in piedi pressoché da solo, con pochi correttivi. Invece, il modello cinese è insostenibile perché basato sull’accumulazione forzata e a suon di credito gratuito. Banche di Stato finanziano imprese di Stato che aumentano i volumi, in estrema sintesi. Dopo aver costruito città vuote, infrastrutture inutilizzate, è il momento di convertire il modello».
Quali sono le cause di questo rallentamento?
«Il ridimensionamento della Cina si sta manifestando principalmente per una volontà interna al Paese. Stanno bloccando gli investimenti improduttivi, il che va bene perché vuol dire meno debiti per le imprese e meno crediti inesigibili delle banche. I dati al dettaglio non sono male, per esempio, soprattutto quelli delle vendite online: ormai i cinesi comprano qualsiasi cosa con il telefonino. Una causa è sicuramente il venir meno dell’onda che, dal 2014, sta suggerendo alle imprese di investire molto in trasporti e costruzioni per compensare il calo del 2009 negli altri settori. Ed è evidentemente una spinta, un’iniziativa governativa».
Un freno positivo, dunque.
«Il problema di città vuote, nuove di zecca, stazioni a 18 binari appena costruite e che non vengono utilizzate, è evidente. La naturale conseguenza di questa espansione sfrenata è che rallentino gli investimenti. Consideriamo quello 0,2% di riduzione del Pil rispetto al primo trimestre una notizia positiva. La Cina è strana. Ma ripeto, sorridiamo per questa direzione verso la sostenibilità».
Ma ci sarà un problema nell’economia cinese.
«In Cina il problema più importante è il consumo delle famiglie, che non aumenta. La domanda interna non viene esaurita per quei due terzi dalle famiglie, ma solo per la metà circa. Il risparmio privato è molto alto. I cinesi non hanno welfare, pensione, assistenza sociale. Il grosso della spesa delle famiglie va all’istruzione dei figli, molto costosa. Oppure per le medicine, carissime. Vi faccio l’esempio del ginseng, alla base della medicina tradizionale cinese. Nel 2014 il prezzo era alle stelle: su tutti i giornali si leggeva che un radice valeva quanto uno stipendio di un lavoratore medio. E ancora, le pensioni: i cinesi devono mettersele da parte autonomamente. Queste tre voci si sommano e si traducono in una grande necessità di risparmio».
E allora perché non investono nel welfare?
«Tito Boeri è stato invitato dal Governo di Pechino per presentare il sistema italiano di previdenza sociale. Come mai un italiano? Perché il nostro sistema sulla carta è il migliore. I cinesi sono molto interessati al nostro modello di welfare, stanno copiando dall’Italia. Se la previdenza dovesse mai essere implementata organicamente, tutti i cinesi dovranno averla. Non possono ispirarsi a un sistema come quello francese o svizzero, per cui i medici ti chiedono se hai un’assicurazione medica prima di intervenire: è contro i loro principi. Pensate che già dal 2008 ci sono progetti pilota di welfare sia aziendale che cittadino: ad esempio Shanghai ha iniziato a fornire servizi di assistenza sociale, con l’obiettivo lucido di far risparmiare meno le famiglie e incentivare i consumi».
Non c’è lo zampino di Trump nel rallentamento cinese?
«La riduzione della domanda degli Stati Uniti, che poi effettivamente è diminuita di poco, non ha influito sull’export: Vietnam e Cambogia soprattutto, ma in generale tutti i Paesi dell’Asia stanno beneficiando della guerra dei dazi perché i cinesi hanno spostato le aziende negli altri paesi del sud-est asiatico. Qual è il riscontro nell’economia globale? In aggregato, il disavanzo statunitense sta aumentando. E se migliora leggermente il rapporto bilaterale con la Cina, per gli americani sta peggiorando in tutta l’Asia».
E la popolazione, come vive la cosiddetta guerra dei dazi?
«Quello che sta succedendo è che i cinesi si chiudono e si inorgogliscono ancora di più. L’opposto dell’obiettivo di Trump. Leggendo i giornali cinesi, si trova su tutte le prime pagine un risentimento genuino nei confronti degli Stati Uniti: “dopo aver approfittato della collaborazione con le nostre imprese” – dicono i giornalisti -, adesso ci vogliono mettere alle strette”. La popolazione è inorgoglita da questa lotta. E poi i cinesi sono molto bravi nella comunicazione interna».
Tralasciando il sentimento dei cittadini, qual è la situazione a livello diplomatico tra le due grandi potenze?
«Geopoliticamente sono ai ferri corti e rimarranno così. Anzi, oserei dire che se restano così per i prossimi anni saremo fortunati. Perché la situazione, a mio parere, non può che degenerare a mio parere. Pure se Trump ottenesse qualcosa, tipo un aumento delle esportazioni americane di soia o macchinari, ormai la situazione è strutturalmente compromessa: siamo passati da un G20 a un G2: gli umori di Washington stanno dettando l’agenda politica internazionale. L’incertezza, con Trump, è totale. Per questo considero lo stallo un buon risultato».
Sono preoccupati a Pechino?
«I nostri colleghi cinesi considerano sia la guerra commerciale sia il rallentamento strutturale, a detta di una mia fonte molto vicina al governo, come due aspetti positivi. “Eravamo troppo tronfi dei nostri risultati”, mi ha detto. “Ci sentivamo imbattibili, contro ogni regola, con un debito alle stelle. Queste due batoste stanno facendo molto bene al Governo perché è tornato a tarare in modo chirurgico le politiche economiche del Paese».
La Cina ha scelto quindi di rallentare per il suo bene?
«Quello che so è che la Cina è un Paese che sta cambiando. C’è una grande consapevolezza del governo cinese, tutte le autorità politiche sono molto lucide sull’aspetto sociale della crescita troppo veloce. La disuguaglianza crescente, connaturata alla crescita, è un problema. Il Governo cinese ha bisogno di nuovi benestanti che possano tenere alto il consumo interno. I politici e gli amministratori cinesi sono molto attenti agli umori della classe media. Ma non solo: c’è una rinnovata consapevolezza anche per l’impatto ambientale di una crescita smisurata. Le classi medie sono molto spocchiose, pretendono aria pulita, verdure biologiche. Sono estremamente fissati, bevono solo acqua in bottiglia ad esempio. I trentenni cinesi che lavorano e hanno potere d’acquisto sono molto più attenti di noi alla salute».
Non erano aspetti conciliabili con la crescita economica di un tempo?
«No. Un modello così non tiene e, siccome i cinesi non vogliono fare la fine dei russi, adesso stanno cercando di compiere il passaggio più difficile. È facile crescere finanziando gratis le imprese per farle aumentare i volumi. I cinesi non avevano obiettivi di margini, ma solo politici e in termini di volumi. Ma a un certo punto è naturale che non ci sia più spazio nel mondo per l’invasione delle merci cinesi. Inoltre, questo modello ha prodotto disastri ambientali che non si possono più nascondere».
E che ruolo gioca la Russia in questo momento storico?
«La Russia è completamente sotto il giogo di Pechino e ciò è colpa delle sanzioni. Abbiamo spinto tutti i Paesi dell’Est, in gruppo, verso Pechino; ed è era una cosa che Mosca non voleva assolutamente fare: i russi sono sempre stati terrorizzati dai cinesi. Per questo hanno comunque cercato di mantenere un rapporto con l’Europa, soprattutto con la Germania. Ma adesso Russia e Cina hanno un legame fortissimo e assolutamente non paritario. I russi possono muoversi solo facendo cose illecite, Mosca ha solo quello per far valere il ricordo della propria grandezza. Ma, di fatto, resta un burattino. Il presidente Prodi, che è molto amico di Putin, gli dice sempre che deve moderare le sue aspettative perché non può andare lontano. A parte le risorse naturali, i russi non hanno nulla. E adesso che l’Europa ha diversificato l’import di risorse energetiche, la Russia è diventata un Paese che non potrà mai più competere con l’egemonia americana o cinese».
Per concludere, qual è secondo lei la ricetta vincente di Pechino?
«A differenza di altri Paesi, incluso il nostro, la funzione-obiettivo della Cina è coerente. Popolo e governo remano da anni nella stessa direzione, c’è unità di intenti. Questo connubio ha fatto della Cina una potenza inarrestabile».
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