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Sgombero di Primavalle, la fotografa del bambino coi libri: «Nei suoi occhi la normalità spezzata con la forza» – L’intervista

17 Luglio 2019 - 06:00 Angela Gennaro
Intervista alla fotografa di LaPresse che ha scattato la foto - già diventata iconica - dello sgombero di Primavalle. «Ho cominciato a cercare quella normalità spezzata: una vita, che potrebbe essere quella di tutte noi»

Non usa i social, Cecilia Fabiano, fotografa da almeno 20 anni, oggi per l’agenzia di stampa LaPresse. «Al massimo ho Instagram, ma non lo seguo affatto», dice sorridendo. Quindi sono gli amici e i colleghi a raccontarle quanto quella sua foto di un bimbo che porta via i suoi libri dopo lo sgombero di via Cardinal Capranica a Roma, da ieri, stia circolando e con quali commenti. In gergo si direbbe che è diventata virale. «Facciamo di tutto perché faccia il giro del mondo! commenta più di uno». Uno scatto netto, in apertura sui quotidiani di martedì 16 luglio: elementi che raccolgono in un’inquadratura la lunga notte di Primavalle, e la mattina in cui 340 donne, bambini, uomini e malati (la categoria di recente creazione nota agli addetti ai lavori come fragilità) sono stati sgomberati da una ex scuola occupata da quasi 20 anni. Un bambino, occhi dritti davanti a se, quanti anni avrà? Lascia quella che è stata casa sua e la sua vita fino a quel momento, dopo aver visto barricate andate in fiamme, gli idranti della polizia avanzare sulla viuzza della scuola, e ragazzi, ragazze, donne e uomini urlare per dire no, non ci portate via da qui. E lui se ne va, perché devono andarsene tutti. Portando con sé dei libroni, pesanti e rovinati, sotto lo sguardo di una poliziotta. Guarda in basso. Occhi puntati forse proprio su quei libri, o chissà. Una scena colta da più di un/a fotografo/a sul campo ieri. Ma che nello scatto di Cecilia Fabiano trova una sintesi che, dicono i suoi stessi colleghi, «tanto comunica».

Cecilia, cosa hai pensato al momento di questo scatto?

«È una foto che, con sfumature diverse, mi sono trovata davanti tante volte. Ieri quando sono arrivata, tra tutto quello che mi sono trovata davanti – le strette di mani, gli occhi, gli sguardi – mi ha toccata un padre, che mi diceva: Ma mio figlio fa calcio qui… Mi ha dato l’idea della normalità spezzata con la forza. Dell’inaspettato: quello non era un contesto politicizzato. Era un contesto di persone che cercavano di arrabbattarsi con la vita, non certo preparati a vivere una cosa del genere. Una normalità spezzata che poi ho cominciato a cercare. E ce n’era tanta – tanto che ieri, per come sono fatta io, ho mandato troppe foto. Tanti elementi, tante situazioni forti. Ho cominciato a cercare quella normalità spezzata: una vita, che potrebbe essere quella di tutte noi. Quella di ragazzini che vanno a calcio e a scuola, che hanno amici, vicini di pianerottolo…».

Cos’altro ti ha colpita?

«Le persone che uscivano da quell’edificio tenendosi le mani l’una all’altra. Mano nella mano. Tantissime. Ho ancora addosso quelle emozioni».

Come interpreti lo sguardo di quella poliziotta? Per qualcuno è severo, per altri è di compassione.

«La neutralità non esiste – io sono d’accordo con Gramsci, quindi non posso non dirti quello che penso. Non lo so, ma in quello sguardo ci ho visto un po’ di rimprovero: quello di una persona che non capisce una situazione diversa dalla sua. Non verso il bambino, ma forse verso la famiglia. Ho visto tante volte quello sguardo: sembra dire “ma guarda come li fanno vivere’. È un po’ l’incapacità di comprendere che le vite sono molteplici. Che le difficoltà non sono sempre dettate dalla bravura a costruirsi una vita normale ma perché c’è un mondo che non sempre mette nelle condizioni di avere una vita che si considera normale. Mi viene in mente una situazione analoga: lo sgombero di un campo rom a Roma a Villa Troili – quello per cui fu indagato Luca Odevaine. C’era un ragazzo di diciassette anni che doveva dare l’esame di violino al conservatorio, cui la famiglia teneva tantissimo. La polizia non lo voleva fare andare via, perché aveva paura che scappasse. I poliziotti avevano fatto una predica alla famiglia, per le condizioni in cui, dicevano, tenevano un ragazzino così promettente».

Quanti sgomberi hai seguito nel corso della tua carriera?

«Tantissimi, purtroppo. E in tante situazioni diverse. Ricordiamoci che le persone più sgomberate, in questo paese, sono i rom. Penso che il racconto di quegli sgomberi rappresenti almeno un terzo del tempo della mia vita in strada con la mia macchina fotografica. Lo sgombero di ieri è stato particolare anche per l’esagerazione, devo dire. Amici, colleghi e persone delle istituzioni con cui ho parlato erano molto preoccupati anche per noi che eravamo laggiù: vedevano un dispiegamento e una determinazione che davvero poteva finire molto male. E poi il contesto umano di semplicità e freschezza: non c’era nulla di costruito e ragionato. Era una situazione molto fresca, con un carico emotivo enorme. E una grande paura. Tanta determinazione ma anche tanta paura, con la comprensione di quello che stava avvenendo».

Hai avuto occasione di parlare con quel bambino?

«Nel corso della notte di attesa, ho parlato con le tante famiglie e le mamme che aspettavano, asserragliate sopra al tetto dell’ex scuola. Lingue mischiate e tante storie di vita. Ora sì, sto cercando quelle famiglie e anche quel bimbo, per sapere come stanno e che destino hanno avuto».

In copertina Cecilia Fabiano/Antonio Masiello

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