Professioni digitali, queste sconosciute: almeno 600mila posti scoperti in Ue. E l’Italia non sta al passo
Avete mai sentito parlare di una professione chiamata big data architect? Se non vi suona familiare, non preoccupatevi: in Italia siete in buona compagnia.
All’interno dell’ultimo volume sul rapporto annuale, l’Istat ha sviluppato un filone di ricerca sui livelli di digitalizzazione delle imprese: quello che ne è uscito è che solo il 5% del valore aggiunto in Italia è prodotto dall’economia digitale, contro il 6,6% della media europea.
E mentre le competenze digitali appaiono fra le più spendibili nel mercato del lavoro – anche italiano – nel 2016 (ultimo anno disponibile) chi possiede competenze digitali elevate è in linea con la media Ue solo per quel che riguarda l’area software (51%).
Per le altre aree di competenza si è riscontrato un ritardo di preparazione notevole: meno 16 punti percentuali nella soluzione dei problemi (53% contro 69%) e nell’informazione (67% contro 83%) e meno 8 punti percentuali nella comunicazione (67 contro 75%). A parte qualche buona eccezione, il sistema formativo italiano non riesce a fornire delle competenze importanti dal punto di vista del digital.
Le ricadute sul sistema produttivo
Niente digital copywriter per il commercio online e sui social network, niente promotori in grado di gestire le pubbliche relazioni su una piattaforma online. Niente digital advertiser per pianificare campagne pubblicitarie sul web, niente web analyst per monitorare i dati dalla rete.
Mancanze che hanno un forte impatto sul sistema produttivo del Paese, in termini sia di offerta che di domanda di lavoro. Perché mentre aumenta sempre più il numero degli occupati in professioni informatiche (2,9% nel 2011 a fronte del 3,5% nel 2018) e diminuisce il divario digitale tra gli addetti all’interno delle imprese (31% nel 2009 contro 48% nel 2018), le competenze dei possibili assunti rimangono indietro.
Entro il 2020 le posizioni mancanti in Europa potrebbero essere oltre 600mila (900mila secondo le stime della Commissione europea, contro i 275mila del 2012). A completare il quadro fornito dall’Istat ci sono i dati sulle imprese: «Sulla base degli investimenti in capitale umano e fisico, si individuano tre gruppi di imprese: il primo, che comprende l’80% delle imprese, è caratterizzato da un profilo tecnologico a basso livello di digitalizzazione; il secondo, costituito dal 15,9% delle imprese, mostra un utilizzo delle tecnologie orientato principalmente al web; il terzo, che include il 4,7% delle imprese, presenta un elevato livello di digitalizzazione«».
L’80% contro il 4,7%. Questa piccola parte delle imprese raccoglie 7,5 milioni di addetti con elevato skill, e contribuisce a un terzo del valore aggiunto complessivo. E, investendo maggiormente in dotazioni tecnologiche, premia i lavoratori in termini salariali.
«I risultati delle analisi confermano l’esistenza di correlazioni positive tra investimenti in automazione, innovazione industriale e assunzioni di lavoratori con un elevato profilo professionale e tecnico», scrivono nel report, evidenziando come almeno la digitalizzazione paghi dal punto di vista di una migliore organizzazione. «Il capitale umano impiegato accoglie non solo nuove professioni, ma anche vecchi mestieri riqualificati in chiave tecnologica».
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