FaceApp, quali sono (davvero) i rischi per la privacy: risponde l’esperto di diritto informatico
Non è sempre facile rintracciare il motivo per cui qualcosa diventa virale. A volte riesce a interpretare alla perfezione una serie di sentimenti sopiti. A volte si aggancia a un ricordo comune a un ricordo comune. Ma la caratteristica più comune dei fenomeni virali è che sono semplici da capire e alla portata di tutti.
E così è stato per FaceApp, l’applicazione per Android e iOS che permette di vedere come potremmo essere fra qualche anno. Una foto, qualche click, una manciata di secondi d’attesa ed eccoci lì, mentre guardiamo sullo schermo la nostra cartolina dal futuro. Qualche anno fa forse questa moda sarebbe arrivata e ci avrebbe lasciato senza troppe polemiche.
Dopo gli scandali legati alla privacy l’attenzione a tutto quello che riguarda i nostri dati è molto più alta. E così i milioni di utenti che hanno scaricato FaceApp in questi giorni hanno cominciato a chiedersi anche dove finivano le loro foto e, soprattutto, per cosa sarebbero state utilizzate. Al netto delle false applicazioni che cercano di sfruttare il successo di FaceApp per inondare qualche centinaio di sventurati di pubblicità, qualche dubbio sull’app di Wireless Lab esiste davvero.
Le domande sono tante. Per avere qualche risposta più chiara abbiamo intervistato Tommaso Ricci, giurista esperto di Diritto delle Nuove Tecnologie e consulente nello studio internazionale Dla Piper.
Cosa non è chiaro nei documenti sulla privacy di FaceApp?
«Ci sono due testi da prendere in considerazione Il primo è quello con i termini e le condizioni di utilizzo dell’app, mentre il secondo è quello sulla privacy policy. I termini e le condizioni di utilizzo non sono poi così diverse da quelle delle altre app. In pratica il documento di FaceApp dice che usando il servizio in modo gratuito stiamo pagando tutto con la nostra immagine.
Il problema piuttosto è nel foglio della privacy. Non è del tutto trasparente. Dice che la società può usare l’immagine per diverse attività fra cui la cessione a altre società del gruppo FaceApp ma non è chiaro quali società ne facciano parte. E poi non ci sono tutti i punti previsti dal Gdpr».
Quali problemi ci sono sul Gdpr?
«Leggendo la privacy policy gli utenti non sono in grado di capire quali dati vengano trattati, a chi vengono comunicati e per quanto tempo possono essere conservati. Sono tutte informazioni che andrebbero rese più chiare. Senza contare che non viene detto se i dati siano conservati in Russia, negli Stati Uniti o in Europa. Il testo di un’app che ha superato gli 80 milioni di download dovrebbe essere più immediato».
Come verranno trattate le nostre immagini?
«Come viene spiegato quando si scarica l’applicazione, i nostri dati e le nostre immagini vengono tutte utilizzate per addestrare un’intelligenza artificiale. Proprio per questo bisognerebbe capire meglio il viaggio fatto da questi dati. Su questo il Gdpr è molto chiaro e il fatto che Wireless Lab abbia la sede in Russia poco importa. Il Gdpr si applica anche alle società che operano in Europa.
Intervistati da TechCrunch gli sviluppatori hanno spiegato che, nella maggior parte dei casi, i dati non vengono conservati per più di 48 ore».
Concedendo a FaceApp la nostra foto stiamo cedendo anche i dati biometrici?
«La foto del nostro volto, da sola, non rappresenta un dato biometrico. La differenza è un po’ quella tra gli smartphone che si sbloccano con un modello 3D del volto e quelli che si sbloccano semplicemente con una foto. I modelli 3D sono basati su dati biometrici perchè calcolano la distanza fra certi punti del nostro volto. Le immagini, da sole, no. FaceApp, per quello che sappiamo, acquisisce solo l’immagine, non anche i nostri dati biometrici».
Un giudizio generale su questa applicazione?
«Io la trovo divertente e realistica. Si può scaricare senza troppi problemi ma, come bisogna fare sempre per le applicazioni, bisogna sempre leggere con attenzione il foglio della privacy».
Lei la ha utilizzata?
«No».
Foto copertina | Gli effetti di FaceApp sui social secondo l’utente Twitter @Science_Chique