Il reato di tortura, quell’eredità incompiuta del G8 di Genova – L’Intervista
Ricorre l’anniversario del G8 di Genova che ha segnato un’intera generazione. I fatti del 19-22 luglio 2001 sono rimasti impressi non soltanto nella mente dei familiari delle vittime, ma anche di chi, pure non essendo stato coinvolto in prima persona, ricorda gli atti di violenza, le umiliazioni e gli abusi subiti dai ragazzi accampati nella scuola Diaz, le grida «Viva Pinochet» e «Viva il Duce», che dicono di aver sentito i detenuti del centro di Bolzaneto.
Fatti per cui i responsabili non hanno dovuto scontare giorni in carcere (le condanne sono cadute in prescrizione) nonostante si siano verificati «atti di tortura», così come stabilito da una sentenza della Corte europea dei diritti umani nel 2017. Ma non è soltanto il calendario a sollecitare la memoria.
Negli ultimi giorni, tra i vari emendamenti presentati nelle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, spunta un emendamento presentato dal deputato Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia, nonché questore della Camera dei deputati, che propone l’abrogazione del delitto di tortura.
Al di là del fatto che possa diventare legge o meno, l’emendamento riapre una vicenda, non soltanto giuridica ma storica, le cui prime pagine, nerissime, erano state scritte a Genova diciotto anni fa. Un processo che, come spiega Valeria Verdolini, sociologa del diritto e presidente di Antigone Lombardia, sembrava essere culminato in un disegno di legge che, nel luglio del 2017, introduceva il reato di tortura in Italia.
Avvocato Verdolini, come commenta la proposta da parte del Questore della Camera dei Deputati, Edmondo Cirielli di Fratelli d’Italia, di chiedere l’abrogazione del reato di tortura?
«Si tratta di un reato recente, una norma perfettibile, però mi chiedo: perché toglierla dopo così poco tempo? Il nostro codice penale mantiene stralciati o inapplicati reati (ad esempio contro la morale pubblica) che hanno perso nel tempo la loro efficacia. La norma penale, se vetusta, non si applica. In questo caso credo che ci siano altri e più preoccupanti timori. Il reato di tortura, in qualche modo, ha una valenza simbolica (oltre che materiale) che spaventa. Per quanto io rimanga dell’avviso che non è la norma in sé che potrà portare a un vero cambiamento, bensì un lavoro di prevenzione costruito sul cambiamento dei paradigmi culturali sugli abusi e sulle forme di violenza, soprattutto nei casi ad opera di funzionari dello Stato».
Quanto pesano sulla sua genesi i fatti del G8 di Genova e perché ci sono voluti così tanti anni prima che diventasse reato (tenendo anche conto del fatto che il disegno di legge fu presentato nel marzo del 2013)?
«Credo che l’iter che porta all’approvazione di una legge, o di una proposta di legge sia spesso frutto di processi sociali e di un cambiamento significativo delle opinioni, dovute ad eventi particolarmente significativi. Lei ricorda il caso di Genova, ma gli anni a venire hanno visto una maggior attenzione dovuta a molteplici vicende: non solo le vicende Diaz e Bolzaneto, ma anche, ad esempio, la condanna Cirino e Renne contro Italia per i maltrattamenti subiti dai detenuti nel carcere di Asti nel 2004. E poi, il lavoro culturale fatto dalle vicende (seppur diverse) Aldovrandi e Cucchi».
Sempre riguardo ai fatti del G8 di Genova la Corte europea dei diritti umani nel 2017 decise che si era trattato di tortura, citando lacune strutturali dell’ordinamento giuridico italiano e non tenendo conto della legge introdotta pochi mesi prima. Come mai? Crede che ci siano lacune da colmare dal punto di vista giuridico in questo senso?
«Credo per due fattori: in primis la sentenza arriva a ridosso dell’approvazione della legge, ma i casi sono significativamente precedenti. In secondo luogo, la norma è frutto di un compromesso e differisce molto dalle proposte avanzate da membri della società civile e politica. Pensi che il primo firmatario della proposta, Luigi Manconi, non ha poi votato la legge in aula. Le ragioni sono molto semplici: la norma non prevede la definizione di tortura come reato proprio, ossia imputabile ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio. Definirla come reato proprio significa riconoscere un uso smodato della forza in presenza di un chiaro squilibrio di potere tra le parti, che è uno degli elementi centrali delle pratiche descritte (dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo agli altri modelli presenti in altri ordinamenti). E questa rappresenta sicuramente la lacuna più grande».
Da quando è stato introdotto nel codice penale l’articolo 613 bis è stato applicato quattro volte e mai nei confronti delle forze dell’ordine. Come mai?
«Da una parte mi verrebbe da risponderle perché viviamo in uno stato di diritto, che mantiene in qualche modo le garanzie minime di democrazia. Dall’altro lato, però, vi sono anche molte resistenze, non condivise per fortuna da tutti i membri delle forze dell’ordine. Credo che individuare gli abusi sia soprattutto nell’interesse di chi esercita il monopolio legittimo dell’uso della forza, ma si tratta di processi complessi».
Crede che a Genova si sia trattato di tortura?
«Si è trattato di una sospensione dell’ordine democratico e delle garanzie minime dei diritti dei cittadini. Le condanne per trattamenti inumani e degradanti rispondono meglio di me a questa domanda».