Crollo delle scuole professionali: tra differenze regionali e inefficienza dell’Alternanza scuola-lavoro
La parabola degli istituti professionali sembra faticare a riprendere quota. Dacché erano sembrati, per un breve periodo di tempo (dal 2009 al 2012), l’unico indirizzo formativo in grado di aprire una finestra sul lavoro nel periodo di crisi, le iscrizioni sono nuovamente crollate.
Secondo gli ultimi dati diffusi dal Miur a fine giugno, il percorso liceale continua ad essere quello preferito dagli studenti, con il 54,6% di iscritti totali. Negli ultimi 3 anni, lo scientifico e il classico hanno conosciuto una costante ascesa, soprattutto per quanto riguarda il primo (+0,6% dello scientifico e +0,4% del classico).
In totale, i ragazzi e le ragazze che hanno scelto la formazione scientifica sono statil 43,2% degli iscritti, che uniti al 14,5% del classico, il 9,5% del linguistico, il 5,9 % delle scienze umane e il 2,6% dell’artistico, costituiscono il 75,7% delle iscrizioni. Contro l’appena 24,3% degli istituti tecnico-professionali.
Ma se la preferenza per le materie dell’area scientifica ha avvantaggiato in leggera misura gli istituti tecnici che, nel prossimo anno scolastico, le scuole di orientamento professionale rappresentano il fanalino di coda della classifica.
«In generale l’istruzione professionale è quella che, negli ultimi anni, ha perduto sensibilmente la propria attrattività registrando un costante calo di iscrizioni», scrivono dal Miur. Anche a seguito della ridefinizione degli indirizzi operata lo scorso anno, i nuovi iscritti sono appena il 13%.
La differenza regionale
Un aspetto interessante dello studio riguarda le condizioni delle scelte dei neoiscritti. Le caratteristiche peculiari di ciascun territorio emergono come uno dei fattori che viene preso in considerazione al momento della scelta delle scuole superiori, in previsione di quelle che saranno le prospettive per l’ingresso nel mondo del lavoro o della scelta degli studi universitari.
Anche da questo punto di vista il report parla chiaro: «La distribuzione territoriale dei nuovi iscritti conferma la preferenza per gli indirizzi liceali (61,1%) per gli studenti residenti nelle regioni del Centro, mentre nelle regioni del Nord-Est, dove alta è la richiesta di personale specializzato, i ragazzi si orientano verso i percorsi ad indirizzo tecnico (38,1%)».
In particolare, le regioni del Friuli Venezia Giulia (già a statuto speciale), l’Emilia Romagna e del Veneto (aspiranti autonome) risultano le regioni con le opportunità professionali più rilevanti messe in campo con l’Industria 4.0. In questo senso, il contesto accresce l’interesse per gli studi tecnico/professionali – e gli indirizzi del settore Tecnologico, infatti, sono quelli di maggior richiamo.
«Anche nella scelta dell’indirizzo professionale – scrivono dal Miur – la territorialità rappresenta un importante fattore dal momento che la finalità di tale percorso è proprio quella di acquisire le competenze necessarie per rispondere alle esigenze formative del settore produttivo di riferimento».
Contesto che condiziona diversamente le altre regioni: basti dare uno sguardo ai dati sul Lazio, che con il 67,8% di iscritti è la regione dove la presenza di un solido settore terziario e di una diffusa rete universitaria «crea maggiori opportunità per chi si appresta a frequentare un liceo».
Le regioni del Mezzogiorno, invece, si confermano terreno fertile per gli studi classici, in particolare nel caso della Calabria che raccoglie il 10% di iscrizioni. O l’indirizzo “Enogastronomia e ospitalità alberghiera”, che «nelle regioni del sud raccoglie più adesioni rispetto alla media nazionale», mentre al nord ci si indirizza verso studi attinenti al settore dei servizi commerciali e alla persona.
La nuova alternanza scuola lavoro
Interpellato da La Repubblica, l’ex sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi ha puntato il dito contro le modifiche apportate dall’attuale governo all’organizzazione delle scuole superiori: «La crisi professionale è l’altra faccia dell’abbandono dell’alternanza scuola-lavoro», ha detto.
Introdotta nel 2015 nel pacchetto “Buona Scuola“, l’alternanza scuola-lavoro ha cambiato nome con l’arrivo del governo Conte e della legge di bilancio. La nuova sigla è «percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento», caratterizzata da un dimezzamento delle ore e dei fondi già in essere.
Per quanto riguarda nello specifico gli istituti tecnici e professionali, si è passati da almeno 400 ore a almeno 150 ore nei tecnici e almeno 210 ore nei professionali. Nei licei si è scesi da 200 ore a 90 ore. Più che ridotti anche gli stanziamenti: da 100 milioni di euro previsti dalla Buona Scuola (a cui negli anni si aggiungono, di solito, i fondi Ue messi a disposizione dei Pon) si è scesi a meno di 50 milioni.
A ben vedere, comunque, i numeri riguardanti l’alternanza scuola-lavoro fino al 2017 e pubblicati nel 2018 (e cioè prima che la riforma venisse messa in discussione), parlano di uno sfruttamento dell’opportunità maggiormente dal punto di vista dei licei. Gli istituti professionali che hanno aderito all’alternanza sono solo il 15%, a fronte del 55% dei licei e del 30% degli istituti tecnici.
Un punto fondamentale riguarda anche la differenza regionale: anche nel triennio d’oro dell’alternanza, gli studenti del Sud rimanevano penalizzati rispetto alle regioni del Nord. Sia dal punto di vista dei numeri sulle partecipazioni, sia da quello riguardante la qualità delle esperienze, la differenza regionale aveva condizionato l’omogeneità della riuscita del progetto. La professionalizzazione degli studenti, a maggior ragione quelli residenti nelle regioni con un tasso di sviluppo del settore terziario avanzato, resta quindi un nodo centrale ancora ben lontano dall’essere risolto.
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