Interviste emergenti: il contemporary soul di Venerus – Milano
Nello studio di registrazione in fondo al Naviglio Pavese, Andrea non riesce a stare fermo. Strimpella una specie di banjo elettrico, distorce i suoni con la strumentazione del suo amico e produttore Mace, si estranea su melodie che sembrano aliene fatte suonare a tutto volume in una coppia di casse che pesa più di lui. «Io sono nato per la musica», dice. All’anagrafe Andrea Venerus, classe 1992. L’artista, originario del quartiere San Siro, Milano, racconta a Open i viaggi tra Londra e Roma per trovare l’anima della sua musica.
Andrea, quando hai capito che tutto questo, i concerti, gli studi di registrazione, sarebbero stati il tuo mondo?
«Probabilmente avevo cinque anni. Non ho mai avuto nulla di più chiaro della musica nella mia vita. Ecco, forse perché le note, le melodie sono state la prima cosa che mi hanno fatto sentire speciale. Quand’ero bambino e ascoltavo una canzone che mi piaceva, sentivo che dentro di me cresceva una particolarità, qualcosa che mi rendeva diverso da tutti. E tutto ciò prima di immaginare di comporre qualcosa di mio».
È particolare, soggettizzavi ciò che suonava intorno a te?
«Esatto. Poi ogni ricordo della mia infanzia è legato alla musica. Ad esempio il primo ricordo che ho della casa a San Siro, dove sono cresciuto, è di mia madre che mi vestiva per andare all’asilo e mio padre, in salotto, che ascoltava Buena Vista Social Club in salotto. Ogni volta che sento quel disco, oggi, rivivo quel momento. E poi i viaggi in auto con i Rolling Stones: una nota, un ricordo».
Poi, come è cresciuto il tuo rapporto con la musica?
«Quando frequentavo il liceo, ho preso delle lezioni di chitarra. Ma non era proprio uno studio, più un appuntamento settimanale. Fino a 18 anni reinterpretavo canzoni altrui, senza la piena consapevolezza che mi stavo avvicinando sempre più a una produzione mia. La vera svolta è stata la partenza per l’Inghilterra. Mi sono trasferito dopo la scuola per frequentare un’accademia di musica».
Che esperienze hai fatto in Inghilterra?
«Ho frequentato due accademie nel Regno Unito, mi sono diplomato in chitarra. Studiando, però, mi sono accorto che non mi è mai interessato essere uno strumentista. Volevo fare la mia musica. Dopo le lezioni, tornavo a casa e mi allenavo nella produzione e nella composizione. Ho avuto una grossa mano dal mio coinquilino, che è un produttore».
Perché hai scelto di lasciare l’Italia?
«Un po’ per una sindrome di Ulisse che ho contratto verso la fine del liceo. Volevo continuare a studiare. Ho messo sul tavolo tutte le opzioni e mi sono convinto che il posto migliore in Europa per studiare musica era l’Inghilterra. Un posto che io sentivo vicino a casa, ma lontano dall’Italia nel modo di vivere. Nel 2016, dopo cinque anni, sono tornato».
Un richiamo irresistibile?
«La verità è che avevo finito i cinque anni di accademia, mi sono mollato con la mia fidanzata e il mio coinquilino se n’era andato in America, a Los Angeles, per fare carriera lì. Ero rimasto praticamente da solo. E questi sono stati i presupposti del ritorno. Poi avevo finito il mio primo disco autoprodotto, delle demo. E mi sono ricordato che avevo degli amici a Roma con uno studio di registrazione. Allora mi sono detto: “Perché non vado a incidere l’ep lì, che a giugno a Roma si sta da dio, invece di restare nell’umida Londra?”. Mi sono fatto dieci giorni a Roma, ogni giorno in studio con dei musicisti che lavoravano per me. E lì è stata la prima volta che mi sono sentito davvero allineato sul fare la musica. Epifania. E sono rimasto a Roma».
Come è stato il ritorno a casa?
«Ho vissuto due anni intensi nella Capitale, Roma e Londra sono un’antitesi totale e ho vissuto il contrasto lasciandomi ispirare. Roma ha dato degli input creativi immensi. I tramonti rosa, di primavera, sul Tevere. Che sensazioni. Poi sono venuto a Milano, ma è stato un giro un po’ fortuito. Mace ha contribuito a trascinarmi qui, mi ha accolto nel suo studio e abbiamo condiviso tante esperienze. Ecco, mi sento molto zingaro, nomade. Sto bene con il mio essere nomade».
Ma c’è un brano che ricordi come fondamentale per la tua carriera?
«La prima traccia che mi ha fatto capire che ciò che stavo facendo era una cosa con vita propria, materia con un’esistenza, è stata Disocean: è un pezzo che non ho mai pubblicato, fa parte del disco che ho fatto in Inghilterra e prodotto a Roma, ma non l’ho mai fatto uscire. Era tutto in lingua inglese e questa cosa mi stava un po’ sul cazzo: ho avvertito dopo cinque anni all’estero il bisogno di fare musica in italiano. Quando abbiamo chiuso in studio il pezzo Disocean, mi sono emozionato, sentivo le note sulla pelle e ho avuto i brividi».
E invece, tra quelli pubblicati?
«Parlando di cose che sono uscite, Non ti conosco è un brano fondamentale: è il primo che ho fatto uscire con il mio nome, Andrea Venerus. Primo pezzo in italiano. Dopo che ho scritto Non ti conosco non ho mai più scritto nulla in inglese, ecco è stato uno spartiacque tra “mi piace fare musica” e “faccio la mia musica, nella mia lingua, ci metto il mio nome e la mia faccia”. Poi la gestazione è stata del tutto casuale: ero ubriachissimo è incominciato a inviare note vocali a un amico produttore canticchiando il motivo e i versi che mi venivano in mente. Lui dopo una settimana mi ha mandato una traccia audio: aveva fatto un beat, campionato la mia voce, posizionata. E mi son detto “O dio, ho fatto una canzone in italiano”. E non l’abbiamo più ritoccata eh, il brano è inciso con quelle note vocali».
Prova a spiegare la tua musica a mia nonna.
«Io faccio canzoni d’amore per persone psicopatiche. Ho la tendenza a rifugiarmi in questa parte di me più emotiva quando compongo. Non sono dediche alla fidanzata da pop italiano, intendiamoci. Però sono cose che nascono dal mio lato affettivo, nel bene e nel male dell’amore. Mi piace tanto la sonorità soul, jazz e mi ci riconosco nel gusto. Ma non voglio inquadrarmi in un genere. Lascio aperte le porte anche alla techno».
Ti senti simile a qualche artista? Facci un esempio.
«L’altro giorno pensavo che tante cose che faccio, se venissero destrutturate e messe piano e voce, sembrerebbero un po’ i brani di Bruno Martino. Non voglio mettermi al suo livello, sia chiaro. Però io lo ascolto spesso e sento una particolare vicinanza. Se fosse ancora vivo, vorrei dirgli: “Bro, ma noi parliamo delle stesse cose!”. Negli anni ’60, probabilmente, Bruno Martino aveva gli stessi problemi miei. La natura narrativa è quella, scarna, una persona sensibile che si racconta. Per quanto riguarda la produzione, vorrei che fosse sempre più fuori di testa».
Hai un sogno “musicale” nel cassetto dei dischi non ancora incisi?
«Un sogno è duettare con Paolo Conte, sarebbe proprio “killer”. O Battiato, che benedizione musicale, culturale sarebbe – Venerus si prende una pause e sorride a lungo-. Parlando di cose più realistiche, vorrei fare un pezzo con Izi. Abbiamo un feeling personale, mi piace la sua testa, mi piace il suo modo di concepire la musica. Spero che accada presto».
Il tour per l’Ep “Love Anthem” toccherà i palchi di tutta Italia insieme al precedente debut Ep “A che punto è la notte”, ecco le date dei prossimi concerti di Venerus:
- 27.07 – Ortigia – Ortigia Sound System Festival
- 03.08 – Piacenza – Bleech Festival
- 09.08 – Catanzaro – Frac Festival
- 10.08 – Livorno – Baciami Festival
- 13.08 – Alberobello (BA) – Farm Festival
- 22.08 – Genova – Liggia
- 24.08 – Sona (VR) – Mag Festival
- 29.08 – Genova – Liggia
- 05.09 – Pinerolo (TO) – ArtigianatOFF
- 07.09 – Carpi (MO) – Godot Festival
Foto di Ludovica De Santis
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