Il chirurgo italiano che ricostruisce le mani dei migranti torturati nei centri di detenzione
Mohammed D. è un ragazzo ghanese di 24 anni che da pochi anni vive a Como. Le sue mani sono «sfasciate, tagliate, rattrappite», come racconta il Corriere della Sera. Sono la sua verità sui centri di detenzione in Libia, che raccontano le torture subìte durante il periodo di permanenza nelle strutture. La sua verità e quella di altre migliaia di migranti in fuga dall’Africa Centrale verso l’Europa.
Mohammed è uno dei pazienti di Massimo Del Bene, il chirurgo primario dell’ospedale di Monza San Gerardo. È lui che gli sta ricostruendo gli arti. Microintervento dopo microintervento, operazioni complesse che dureranno anni e serviranno a restituirgli l’uso delle dita e una presa che funzioni bene.
«Raramente si aprono con noi», dice Del Bene al Corriere. «Faticano a raccontare. E se lo fanno, ci vogliono mesi. Ma i segni che hanno addosso, spiegano molto».
Chi è “Del Bene”
Del Bene non è un nome sconosciuto. È il chirurgo che nel 2010 realizzò il primo trapianto di entrambe le mani in Italia. La storia di Carla Mari, la donna al centro dell’operazione all’avanguardia, fece il giro del mondo per la sua eccezionalità. Nello stesso ospedale, il San Gerardo, la stessa equipe compì nel 2000 il primo trapianto italiano di una mano.
Il primario ha messo a disposizione la sua esperienza e la sua maestria per restituire una speranza alla vita di queste persone. Quello che racconta il suo archivio fotografico, fatto di lastre e messe a fuoco sulla carne viva, è un mondo senza pietà: ustioni, ferite profonde da acido, unghie strappate via, ossa frantumate, amputazioni, infezioni che portano alle necrosi.
«È la chirurgia della tortura», spiega il medico al Corriere. «Traumi ripetuti che alla fine provocano invalidità. Una chirurgia ben diversa da quella legata agli incidenti. Io non la conoscevo: nei nostri ospedali, forse ne avevano ricordo solo i vecchi medici che avevano visto la Resistenza. In questi ultimi quattro anni, con l’arrivo dei migranti, mi sto facendo un’esperienza…».
«Noi interveniamo anni dopo la tortura», racconta ancora Del Bene. «E ricostruire è più difficile. Quelli che vediamo tanto, sono i seviziati a martellate: hanno le dita sfondate una per una. È il modo più efficace per rovinare una persona. Se ti spacco le gambe, poi mi tocca accudirti. Se invece ti distruggo la mano, non ti tolgo l’autonomia, ma ti faccio fare lo stesso quel che voglio. Senza mani non guidi un camion, non scarichi una cassa, non servi a niente. Dipendi da me».
Nei centri di detenzione in Libia
Arriva il primo agosto la notizia della chiusura di tre dei centri di detenzione libici nella Tripolitania, nelle città di Misurata, Tagiura e Al-Khoms. «Un ottimo primo passo quando verrà concretizzato», ha detto Vincent Cochetel, inviato nel Mediterraneo centrale dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che da sempre monitora e condanna le strutture di reclusione per migranti. Un ottimo passo avanti, che non cancella gli anni di traumi e torture sui corpi e le menti di migliaia di uomini e donne.
«Vivevo nella zona occidentale del Ghana, una mamma già anziana, quattro fratelli. Non avevo nient’altro. Sono partito nel 2013 e dopo un mese sono entrato in Libia. Non sapevo che ne sarei uscito conciato così…», racconta Mohammad al giornalista.
Passa un anno e mezzo a Sebha e a Tripoli nei centri di detenzione: «Io non ero un criminale. Però mi hanno messo dentro. E picchiato, tutti i giorni. Le guardie libiche mi prendevano a pietrate le mani. Con un coltello di quelli che si usano per sgozzare gli animali, mi hanno tagliato la destra. Per lasciarmi andare, volevano che la mia famiglia pagasse. Mi sono salvato solo perché sono fuggito. Ho preso un barcone. Sono arrivato in Italia. E ho trovato il Dottore…».
Una storia che parla del declino di un’intera civiltà, come afferma lo stesso Del Bene. «È il Medio Evo che torna nella nostra civiltà», dice. «L’aggressività fatta uomo. Difficile da guardare, anche per un medico».
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