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Barcellona, come funziona una clinica per la Pma: le tecniche e i programmi per la sterilità maschile

03 Agosto 2019 - 07:16 Angela Gennaro
Open è stato a Barcellona, in uno dei centri di riproduzione assistita cui ancora si rivolgono tante italiane e tanti italiani

Barcellona d’estate, città funzionale e funzionante. Pulita, efficiente, non un sacchetto della spazzatura per terra, non un bus in ritardo: una specie di Svizzera sul mare, carica di turisti e di significati. A Barcellona non c’è solo la leggerezza della vacanza. Si respira anche un’aura di aspettativa: quella delle tante coppie che (ancora) vengono qui – anche dall’estero – per cercare di avere un figlio, accedendo ai trattamenti di riproduzione assistita. 

L’Institut Marquès

È a nord ovest, tra vie alberate e tram, che si incrocia l’Institut Marquès, centro spagnolo di Ginecologia e Riproduzione Assistita. Musica dagli altoparlanti all’ingresso, in un edificio incastrato dentro a un altro alle spalle, che ospita il Grupo Planeta DeAgostini: un palazzo che riporta alla mente il Bosco Verticale del quartiere Isola di Milano. 

L’Institut Marquès a Barcellona

L’Istituto esiste da più di 95 anni e impiega oggi circa 200 persone. Ha sedi in cinque paesi europei – compresa l’Italia – e negli Emirati Arabi. Diretto dalla dottoressa Marisa López – Teijón e dal dottor Leonardo Marquès Amorós, accoglie pazienti provenienti da oltre 50 Paesi, spiegano dallo staff.

Al piano terra una prima sala d’attesa e un bar accolgono chi entra. Ascensori, il piano intermedio con il reparto di “assistenza al paziente”: una decina di persone, principalmente donne, che parlano le più svariate lingue e si occupano, dalle loro postazioni, di dare informazioni.

«Spesso gli italiani non hanno alcuna idea di come funzioni», racconta Manuela, biologa. «Diamo un supporto logistico ed emozionale: a ogni persona che chiama viene assegnata in ogni caso un’assistente, anche se poi quella persona decide di non diventare alla fine un/una paziente dell’Istituto». 

E poi il piano superiore, con i “nidi” – sofa incastonati l’uno nell’altro a creare spazi di privacy nell’open space – e aspiranti genitori che attendono il loro turno. È mattina, ci saranno tre o quattro coppie. I volti hanno le rughe che non ti aspetti: poche.

Lei legge, ha lo sguardo ipervigile, si guarda intorno, lancia occhiate torve a cose e persone: nervosa, un po’ corrucciata. Lui, in genere, ha l’aria un po’ assente. Forse smarrita. È davvero così o è suggestione culturale? Leggono, consultano più o meno freneticamente lo schermo dello smartphone. C’è anche una coppia un po’ più adulta: comunica quasi saggezza, e un po’ di amarezza. 

Non solo inseminazione artificiale

Le tecniche cui si può accedere qui sono quelle classiche (e possibili anche in Italia) come l’inseminazione artificiale, la fecondazione omologa o eterologa, la vitrificazione di ovuli – per eventualmente posticipare il momento di una gravidanza, mantenendo le stesse possibilità di restare incinta del momento della vitrificazione – la banca del seme e quella di ovociti.

E poi ci sono quelle che in Italia sono ancora illegali. Qui, per esempio, si può ricorrere al metodo ROPA, ovvero Recepción de Ovocitos de la Pareja. È la “maternità condivisa”: in una coppia di donne, entrambe vengono coinvolte nella gravidanza – l’una dando l’ovulo, l’altra l’utero.

Intervista a Priscilla Chamelete Andrade Banzato Médica Ginecóloga, Specialista in Riproduzione umana, Laparoscopia e Isteroscopia. Fa parte del team di Institut Marquès a Barcellona da sei anni e cura pazienti in spagnolo, portoghese, italiano e inglese. Ha oltre 20 anni di esperienza nel campo della riproduzione assistita. Ha lavorato in vari centri pubblici e privati in Brasile e nell’Institut Marquès partecipa attivamente agli studi del comitato scientifico.

Mentre in Italia i trattamenti di riproduzione assistita per le donne single o con una partner dello stesso sesso non sono possibili, in Spagna lo sono: per la legge, «qualsiasi donna di età superiore ai 18 anni, e con totale capacità di intendere e di volere, potrà essere ricevente o utente delle tecniche disciplinate dalla Legge 14/2006 sulle Tecniche di Procreazione Umana Assistita».  

Donazione di gameti

La donazione di gameti, in Italia, è ora possibile: ma italiani e italiane non donano e nel nostro paese il 95% dei trattamenti di eterologa viene fatto con seme e ovuli importati dall’estero. «Nel paese di origine dei pazienti, il campione di sperma viene congelato e inviato al nostro laboratorio di Barcellona dove la fecondazione in vitro viene eseguita con gli ovuli freschi della donatrice», spiega Jordi Suñol, specialista in Ginecologia e Ostetricia e direttore medico internazionale di Institut Marquès. Una volta fecondati, gli embrioni vengono vitrificati al quinto giorno di sviluppo e rimandati indietro, «in modo che il trasferimento dell’embrione venga effettuato nel paese di residenza».

Il laboratorio dell’Institut Marquès, Barcellona

25 anni fa, dice il medico, per una donna «la percentuale di ottenere una gravidanza con i propri ovociti era del 40%». Ma posticipare il momento di fare un figlio ne «riduce progressivamente le chance». È un messaggio difficile da comunicare, dice, «perché le donne fanno figli sempre più tardi». E le coppie hanno sempre più fretta di ottenere un risultato, quando decidono di allargare la famiglia. 

Dopo i 37 anni, per una donna, «diminuisce la possibilità di ottenere una gravidanza con i propri ovociti. E l’età è anche inversamente proporzionale al rischio di aborto: i gameti diventano progressivamente portatori di sbalzi cromosomici e variazioni genetiche che la natura preferisce ‘rompere’ spontaneamente». È qui che si inserisce il ricorso all’eterologa e quindi all’ovodonazione: ovociti ottenuti da donatrici giovani, permettono percentuali di attaccamento superiori, senza che l’età della donna gestante sia un fattore fondamentale.

Institut Marquès, Barcellona

In Spagna non solo la donazione di gameti è possibile, ma funziona anche. «Perché prevede un rimborso spese». Ed è così che anche le coppie italiane ricorrono a ovuli di donatrici spagnole. Si può donare dai 18 ai 35 anni, spiegano dall’Institut Marquès. «Noi preferiamo accettare donatrici fino ai 32 anni». 

In media, chi dona qui ha 24/25 anni. L’istituto «possiede un dipartimento interno per la selezione dei donatori», racconta Jordi Suñol. È previsto un rimborso spese che va dai 600 ai 1100 euro nel caso di donatrici, per l’impegno cui sono sottoposte: 15 giorni di trattamento e poi il prelievo, che prevede una piccola sedazione (e quindi l’impossibilità di recarsi al lavoro per quel giorno). Per evitare però «una professionalizzazione dell’ovodonazione», nella selezione delle donatrici «stiamo attenti a ragioni di tipo economico, teniamo conto del fatto che queste donne non hanno ancora realizzato il loro desiderio famigliare e che la ripetuta stimolazione ovarica può essere un potenziale rischio». Anche se, specifica Suñol, «abbiamo ormai dati sedimentati per cui non ci sono rischi di tumori o di effetti negativi. Anzi, questi trattamenti possono essere utili per eventuali diagnosi precoci e quindi percentuali di cura molto più alte, perché queste donne, per donare, fanno in un percorso di medicalizzazione». 

Embrioni conservati nell’azoto liquido, Institut Marquès, Barcellona

«Tentiamo di reclutare queste donatrici tra le università di Barcellona, selezionando i profili meno a rischio di alterazione socioeconomica», spiega ancora il medico. Presso l’istituto ci sono in media 10/12 donazioni alla settimana «e i nostri buoni risultati sono collegati alla capacità del laboratorio ma anche alla qualità degli ovociti» e al tentativo di non avere liste d’attesa, incrociando immediatamente ovociti “freschi”, che non vengono così crioconservati, e pazienti. «Il momento della donazione coincide con il momento della ricezione», dice Sunol. «E la percentuale di successo aumenta se gli ovociti sono a fresco». 

La donazione in Spagna è anonima (non così, per esempio, in Irlanda), ma di chi dona è possibile conoscere tutte le caratteristiche fenotipiche. La donatrice può essere esclusiva o in condivisione, e questo ha naturalmente ha un effetto sul costo del trattamento. Se si decide di importare tutti gli ovuli prodotti da quella donatrice con quel trattamento, il costo sarà più alto. Con lo sharing degli ovuli, il prezzo naturalmente scende. 

Jordi Suñol, specialista in Ginecologia e Ostetricia e direttore medico internazionale di Institut Marquès, Barcellona

La legge spagnola «limita a sei il numero di bambini nati da una donatrice (o da un donatore)», spiega a Open Mattia Archi, avvocato italiano del foro di Barcellona che da anni si dedica a questi temi. La legge attualmente in vigore è la n. 14/2006 “Sobre tecnicas de reproducción asistitida” che «sostituisce la normativa anteriore del 1988 attualmente non più in vigore», spiega il legale «agli art. 21 e 22 si prevede l’istituzione di due registri a carattere nazionale, uno sui donanti e uno sulle attività dei centri di riproduzione, nell’ambito della “Comisión nacional de reproducción asistida” (art. 20)».

Ma il registro nazionale dei donanti non è ancora mai stato attivato. Come si fa quindi ad assicurare il rispetto del limite dei sei bambini? «Lo trattiamo come un rischio molto importante e condividiamo le informazioni con gli altri centri di Barcellona e della Catalogna», dice Suñol. 

La sala di rilascio del seme, Institut Marquès, Barcellona

Per gli uomini, la sala di deposito del campione dell’Institut Marquès è concepita «per dare la giusta importanza al suo ruolo nel concepimento». Non solo le classiche riviste porno, ma anche – se si preferisce – un Erotic Personal System in 3D. Ecco il video con cui Marisa López-Teijón Pérez, direttrice di Institut Marquès, spiega come funziona.

Diagnosi genetica preimpianto

In Spagna «possiamo fare la diagnosi genetica preimpianto senza particolari ragioni come avviene invece per altri paesi», racconta ai giornalisti Suñol. «Per scegliere i migliori embrioni per il transfer, quelli che avranno maggiori probabilità di successo». 

La diagnosi genetica preimpianto permette di analizzare il contenuto genetico o cromosomico degli embrioni ottenuti con tecniche di Pma, «per trasferire nell’utero solo quelli che non presentano anomalie». Institut Marquès usa la tecnica di Next Generation Sequencing e rivendica di essere «uno dei pochi centri che realizzano queste analisi sull’embrione a fresco, senza necessità di congelarlo».

La diagnosi è raccomandata soprattutto per pazienti con problemi di infertilità dovuta all’età materna superiore ai 37 anni, a seguito di frequenti aborti, dopo diversi insuccessi in cicli di Fecondazione in Vitro, o per infertilità maschile. Ma anche per chi è portatore di malattie genetiche che non vuole trasmettere al figlio, e per pazienti con cariotipo (l’assetto cromosomico) alterato. 

«Gli embrioni vengono selezionati in base alla loro conformazione morfologica e in base al percorso cellulare con il miglior pronostico e possibilità di diventare una gravidanza», prosegue Suñol. L’informazione viene poi condivisa via smartphone con la coppia prima del trasferimento embrionale. «Le coppie che hanno avuto una maggiore visualizzazione, hanno avuto una percentuale di attaccamento statisticamente più elevata dell’11% secondo i dati raccolti fino a ora», dice il medico. 

E gli aspiranti genitori che hanno cominciato a osservare il loro embrione sullo schermo dello smartphone anche prima dell’impianto, insomma, hanno riscontrato percentuali di successo per una gravidanza più alte. Come si spiega? «Crediamo che possa trattarsi di ragioni neurologiche, psicologiche, ormonali: un’attitudine endometriale collegata alla proiezione visuale», dice ancora Jordi Suñol. «Un risultato che ci ha sorpreso».

Il destino degli embrioni

In Italia, gli embrioni che non rientrano nel ciclo riproduttivo, cellule fecondate e che mai vedranno un utero – perché la madre decide di non volere avere più figli, o perché non sono embrioni idonei al transfer e quindi a una gravidanza – per legge devono essere conservati dagli istituti in azoto liquido. In eterno. Sono più di 70mila gli embrioni sparsi in giro per l’Italia e nel limbo: non possono essere smaltiti o destinati ad altro, per esempio alla ricerca.

La Legge di Riproduzione Assistita spagnola, al contrario, «offre diverse possibilità per gli embrioni congelati che possono essere trasferiti alla stessa paziente, donati ad altri pazienti, distrutti o devoluti alla ricerca». Ci sono, per esempio, pazienti che pur avendo crioconservato gli embrioni, «coscienti di non voler più altri figli, non riescono a prendere decisioni sul destino degli embrioni». Per legge, allo scadere di un periodo dato, «tali embrioni passano a disposizione del centro dove sono stati fecondati». 

Per questo, dal 2004, Institut Marques spiega di aver avviato un «programma di adozione di embrioni»: è il primo in Europa a farlo. E nel 2017 ha festeggiato l’arrivo di Georgina, nata nella contea di Essex, in Inghilterra, embrione numero 1.000 del programma. A lei è stato dedicato il primo albero piantato nel Bosco degli Embrioni, popolato da quel momento da «un albero per ogni bambino nasce grazie ad un trattamento di riproduzione assistita» dell’istituto, in un’area da rimboschire colpita da un grande incendio negli anni ‘90 nella montagna della Mare de Déu de la Roca, a Mont-Roig del Camp. 

La sterilità maschile

«Tra le nostre attività tentiamo di portare avanti anche un programma di responsabilità sociale», racconta ancora ai giornalisti Jordi Suñol, nel suo italiano a tratti contaminato da parole spagnole. «Abbiamo un contesto che riduce la capacità biologica di avere una gravidanza senza l’aiuto della riproduzione assistita», dice il medico. La sterilità maschile, spiegano dall’istituto, è oggi associata al 50% dei casi di infertilità coniugale: nel 30% è l’unica responsabile e per il restante 20% è concomitante con il fattore femminile.

«Negli ultimi anni è stata registrata una lenta ma progressiva diminuzione di quantità e qualità dello sperma, in termini di mobilità e morfologia», dicono dalla clinica. «I partner maschili presentano alterazioni dello sperma, più o meno gravi in 6 coppie su 10 che ricorrono a trattamenti di riproduzione assistita per diventare genitori». 

Fino a qualche anno fa i numeri erano diversi, spiega Suñol: le percentuali vedevano un 70% di problematiche femminili a fronte del 30% maschile. Per questo l’istituto promuove, racconta il medico, una campagna di sensibilizzazione sull’effetto delle sostanze chimiche tossiche sulla fertilità, con uno studio sullo stato dello sperma iniziato quest’anno in Italia e in Irlanda e già in atto in Spagna da tempo, con «risultati importanti in termini di dati sulla qualità del seme soprattutto in un’area vicino Barcellona, Tarragona: un territorio che vede la presenza di industrie chimiche e imprese petrolchimiche», dice Jordi Suñol. «L’esposizione, in percentuale, danneggia la qualità dello sperma». Le sostanze tossiche, insomma, «hanno un effetto sulla popolazione, sugli uomini e sulla loro fertilità». 

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