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È l’anniversario della strage dei braccianti a Foggia. Chi fa qualcosa (e cosa) per avere pomodori «puliti»

Nonostante le promesse di nuovi tavoli sul caporalato, le condizioni dei lavoratori migranti nelle filiere agricole rimangono critiche. Ma qualcuno cerca di fare la differenza attraverso la produzione sostenibile

Li chiamavano “i cafoni”. Quegli uomini e quelle donne intimamente legati alle terre che lavoravano. Intimamente legati alla povertà, spesso allo sfruttamento, e alle poche, pochissime tutele. Oggi li chiamiamo più facilmente “braccianti”, o anche solo “migranti”, ché in larga misura provengono dall’Africa centrale. Ma la dimensione di sfruttamento e povertà è rimasta la stessa.

Tra il 4 e il 6 agosto del 2018, 16 braccianti agricoli hanno perso la vita in un incidente stradale nel foggiano. Aladjie Ceesay, Ali Dembele, Moussa Kande, Amadou Balde, Ebere Ujunwa, Baofudi Cammara, Alagie Ceesay, Alasanna Darboe, Eric Kwarteng, Romanus Mbeke, Djoumana Djire, Hassan Goultaine, Anane Kwase, Moussa Toure, Lahcen Haddouch e Joseph Avuku, ammassati nei furgoncini dei caporali, stavano tornando dalle terre di lavoro, dove ricevevano una paga oraria pari a meno di due euro l’ora.

La filiera agricola fa ogni anno un numero indefinito di morti, perché i lavoratori che la popolano sono spesso invisibili e abbandonati a sé stessi nei ghetti attorno ai campi. Secondo un rapporto dell’Ispettorato del Lavoro, che ha intensificato i controlli dopo la legge del 2016, nel 2018 il tasso di irregolarità rilevato è stato di circa il 54,79%, superiore di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2017. Secondo l’Oxfam, sono oltre 400mila i lavoratori non regolari, di cui 100mila vittima di sfruttamento.

Ansa | Bracciante agricola

Ma mentre si aspetta la riapertura del tavolo contro il caporalato al Mise, promesso dal ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio, nelle aree del Sud Italia i lavoratori – italiani e non – si organizzano per tentare di arginare la mattanza.

Da una parte ci sono i nuovi movimenti sindacali. Ripartendo dalle radici della rappresentanza italiana (del resto Giuseppe Di Vittorio, fondatore della Cgil era, per usare la sua stessa definizione un «ragazzo bracciante semianalfabeta, figlio di braccianti analfabeti»), una parte dei lavoratori agricoli sta portando avanti delle battaglie per i diritti sul lavoro in un settore che fattura ogni anno 132 miliardi di euro.

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Dall’altra ci sono i produttori locali che resistono alle condizioni disumane della produzione per sfruttamento. Una delle reti esistenti si chiama Tomato Revolution e tenta di restituire dignità alla raccolta del pomodoro nel Sud dell’Italia. A farne parte sono 30 piccoli produttori attivi in territori ad alto rischio di sfruttamento della manodopera: dal Tavoliere pugliese alle piane calabresi, passando per i territori siciliani, le cooperative portano la cultura del sostenibile e del consumo critico oltre la percezione elitaria dei prodotti bio.

La filiera pulita

Era il 2011 quando Yvan Sagnet diede vita al primo sciopero contro i caporali e gli imprenditori agricoli dalla masseria Boncuri (Nardò) dove lavorava. La protesta durò un mese e portò all’introduzione del reato di caporalato e al primo processo in Europa sulla riduzione in schiavitù, concluso con la condanna di dodici imprenditori e caporali.

In meno di dieci anni, i progetti agricoli caporalato free si sono moltiplicati. Tomato Revolution, nata dalla collaborazione tra Altromercato, un’impresa che lavora per la promozione e realizzazione di pratiche di economia solidale, e alcune imprese nel campo dell’equo-solidale, prosegue in questa direzione. «Un altro futuro è già presente», dice a Open Valeria Calamaro, responsabile del progetto. «Basta fare attenzione che il pomodoro sia buono, fin dal principio. È nel modo consapevole di acquistare i prodotti che usiamo tutti i giorni, come i pomodori e le passate».

Spesso le cooperative e le imprese che compongono la rete della Tomato Revolution operano sui terreni confiscati alla mafia, e il loro impegno per la tutela dei lavoratori è a 360 gradi conto qualsiasi rischio di abuso. Nata nel 2017 come evoluzione del Progetto Solidale Italiano, ha l’obbiettivo di restituire dignità alla produzione del made in Italy. «Il campo del pomodoro è un ambito molto importante per il mercato italiano», spiega Valeria, «Dove purtroppo però si parla molto male di made in Italy e si tralasciano gli abusi delle coltivazioni».

«Molti dicono che il nostro pomodoro è più caro degli altri. È vero, ma c’è una ragione precisa: proviene da lavoro retribuito», spiega Valeria. Il pagamento dei lavoratori è stabilito a inizio stagione, quando si fanno le stime delle quantità della produzione. E sono lavoratori di ogni tipo, provenienti soprattutto dalle categorie più deboli, che hanno in comune la sicurezza di una paga equa.

La prima Cooperativa che ha abbracciato il progetto è La Pietra di Scarto, che possiede circa tre ettari di terreno a Cerignola, nel foggiano. Sui terreni confiscati alla mafia danno lavoro a ragazzi del posto e ai migranti provenienti dal distretto di Rignano, uno dei luoghi più caldi per il caporalato.

Ma, come spiega Valeria, si tratta ancora di laboratori ed esperimenti che hanno bisogno di espandersi per riuscire a fare davvero la differenza. «Il nostro progetto è importante, ma per il momento è solo una testimonianza», dice. «Abbiamo bisogno di nuovi e veri investimenti per il made in Italy. Vogliamo fare del pomodoro un’agricoltura solida e sostenibile come quella del caffè e dello zucchero di canna». Il cambiamento, come dicono da Altromercato, passa da un piatto di pasta. Ma non solo.

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